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giovedì 18 aprile 2024

Assolto il modello Riace - Mimmo Lucano "voleva solo aiutare gli ultimi"

Tonio dell'Olio
Assolto il modello Riace

PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI 17 APRILE 2024

L'assoluzione di Mimmo Lucano dalle accuse infamanti è molto di più che una sentenza nei confronti di una persona. Il vero processo si è celebrato contro un modello di accoglienza e contro la scelta di restare umani. A Riace si tocca con mano che non è vero che la strada obbligata sia il respingimento ma che l'accoglienza diffusa è persino più conveniente.

Il meticciato non è una contaminazione pericolosa che ci fa smarrire l'identità, ma una via maestra per il riconoscimento dell'umanità altrui. È per questo che Mimmo Lucano dice che ha vissuto questo penoso cammino come una mortificazione dell'anima. Ed è per questo che da parte del mondo dell'informazione si sarebbe dovuto approfondire e dar modo di riflettere concedendo lo stesso spazio che a suo tempo si è dato per dimostrare inutilmente la sua colpevolezza. La sua assoluzione sta lì a dirci che dobbiamo scegliere tra Riace e Cutro, tra Riace e la via albanese. Con meno soldi si può far molto meglio e nel rispetto della vita delle persone si può dare un futuro migliore a chi arriva e a chi c'è già.

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Riace, Mimmo Lucano 
"voleva solo aiutare gli ultimi"

Depositate le motivazioni del provvedimento della corte d'Appello di Reggio Calabria, che smantella le accuse all'ex sindaco del borgo dell'accoglienza: nessun profitto, solo solidarietà


A Riace l’accoglienza non era un business, ma una mission diretta a "perseguire un modello […] non limitato al solo soddisfacimento di bisogni primari, ma finalizzato all'inserimento sociale dell'ospite di ciascun progetto". Un modello da esportare e non da condannare. Potrebbero riassumersi così le motivazioni della sentenza di secondo grado del processo Xenia, in cui i giudici della corte d’Appello di Reggio Calabria hanno smontato pezzo dopo pezzo l’impianto portato avanti dall’accusa e poi confermato dal tribunale di Locri con la condanna per 16 imputati, a più riprese definita "abnorme". La condanna più pesante, a 13 anni e 2 mesi di carcere, era stata pronunciata nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, un tempo noto come “il borgo dell’accoglienza”. Verdetto ribaltato lo scorso 11 ottobre dai giudici di Appello.

A un’attenta lettura, per i magistrati di secondo grado anche le prove raccolte da chi accusava Lucano mettono in luce "lo spirito di fondo che ha mosso l'imputato, certo di poter alimentare una economia della speranza, funzionale a quella che più volte Lucano ha definito essere la sua mission, ovvero poter aiutare gli ultimi". Nei confronti dell’ex sindaco di Riace rimane una condanna a 18 mesi (con pena sospesa) per un presunto falso relativo a un solo atto, firmato nel 2017, sui 57 – invece – contestati dalla procura di Locri. Ma soprattutto rimane un calvario lungo cinque anni, quelli trascorsi dal blitz della Guardia di finanza a cui era seguito l’arresto e l’avvio di una lunga fase cautelare, nonché il rammarico per quello che Riace era e sarebbe potuta continuare a essere.

Mimmo Lucano non cercava visibilità

Come ribadito anche dal collegio giudicante presieduto da Elisabetta Palumbo, nel processo iniziato il 25 maggio 2022 e celebrato in Appello, si è fatta attenzione alla "non comune complessità e delicatezza delle vicende trattate". Non a caso, a inizio gennaio la corte aveva richiesto una proroga di 90 giorni per il deposito delle motivazioni. La sentenza ha riletto le prove dando un’interpretazione molto diversa da quella offerta in primo grado. Il collegio presieduto dal giudice Fulvio Accurso, nel provvedimento pronunciato a fine settembre 2021, aveva definito Lucano il "dominus indiscusso" di un’associazione a delinquere, finalizzata a strumentalizzare il sistema di accoglienza a Riace, nel periodo interessato dalle indagini che va da gennaio 2014 a settembre 2017, quando nel borgo erano attivi i progetti Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), Cas (centri di accoglienza straordinaria) e Msna (minori stranieri non accompagnato). Si parlava di "mala gestio" dei progetti dettata dalla volontà degli imputati, e in particolare di Lucano, di accaparrarsi risorse pubbliche o da un "movente politico".

Secondo i giudici di primo grado, Lucano era mosso dalla ricerca di visibilità. Una tesi ripresa dalla propaganda della destra, ma smentita in appello

Secondo i giudici di primo grado, l’ex sindaco era divorato dal "demone ossessivo della ricerca di una sempre maggiore visibilità". Un assist per la propaganda di destra. All’indomani della sentenza, Giorgia Meloni si era infatti scagliata sui propri social contro "l’idolo della sinistra immigrazionista" sostenendo che "i soldi pubblici destinati agli immigrati finivano alle solite cooperative rosse e nelle case pagate dallo Stato per l’accoglienza ci dormivano i vip radical chic e i cantanti quando andavano a fare le passerelle a Riace. Insomma, la solita mangiatoia progressista sulla pelle dei disperati". E, tuttavia, scrivono i giudici di Reggio Calabria a distanza di tre anni: "Che Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati è circostanza" che emerge dai suoi stessi dialoghi intercettati, come quello in cui "egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avevano cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell'accoglienza senza alcuna finalità predatoria". Piuttosto "egli era convinto che proprio l'assenza di qualsiasi finalità predatoria gli aveva procurato non poche inimicizie". Di quel “demone”, insomma, non è stata trovata traccia sui conti correnti dell’allora sindaco di Riace che, nel frattempo, ha anche rifiutato le candidature alle elezioni politiche e al parlamento europeo.

Nessuna associazione a delinquere

I giudici hanno riscontrato un "disordine amministrativo e contabile, ma anche l'assenza di un governo complessivo delle azioni" necessario a dimostrare un progetto criminale

Così, partendo dagli stessi presupposti e dalle stesse prove, la corte d’Appello è arrivata a conclusioni opposte rispetto al tribunale di Locri, a cominciare dalla presunta esistenza – già in realtà smentita dai giudici in fase cautelare – di una associazione a delinquere necessaria a dimostrare anche una lunga serie di reati-fine: dalla truffa al peculato. Tutto smontato. "La sentenza appellata – si legge nelle motivazioni dei giudici di secondo grado – non consente di derivare, dall’analisi delle singole condotte, indicatori sicuri della avvenuta strutturazione di mezzi e persone, secondo un coordinamento complessivo che trascenda le singole azioni". In altri termini, non ci sarebbe stato un disegno unitario e perverso dietro la gestione dell’accoglienza a Riace da parte dell’amministrazione di Lucano e delle associazioni. Ma più che altro un agire caotico dei soggetti coinvolti, che esclude l’esistenza di un’associazione a delinquere. "Le relazioni ispettive, le prove per testi e financo le stesse conversazioni intercettate delineano un disordine amministrativo e contabile, ma anche l’assenza di un governo complessivo delle azioni, nonché l’inesorabile procedere delle associazioni in ordine sparso". Anche il linguaggio delle conversazioni, secondo i giudici, non usato nella forma "criptica o convenzionale" dagli allora indagati, per "evitare di essere compresi da temuti ignoti ascoltatori", basta di per sé a smentire l’esistenza di un sodalizio criminale.

Il Viminale sapeva dei migranti che restavano a lungo

"Non giova al tema d'accusa neppure l'analisi del trattenimento dei migranti oltre i termini" previsti dai progetti. La Corte d’Appello si è soffermata anche sul tema dei cosiddetti “lungopermanenti”, a cui è stato riservato ampio spazio durante i processi. Nella ricostruzione del tribunale di Locri, i migranti sarebbero stati trattenuti nei progetti Sprar e Cas oltre i tempi e i modi consentiti dalla legge, nascondendo le informazioni a prefettura e Viminale per ottenere un profitto quantificato in oltre 2 milioni di euro. La corte d’Appello ha smentito questa ricostruzione e ha aggiunto: da parte del Viminale e della prefettura c’era "la piena consapevolezza della presenza dei 'lungopermanenti' a Riace" che potrebbe risalire già al 2014, anno di inizio delle indagini. A questo proposito, è stata citata una circolare ministeriale del 2015 secondo cui "in mancanza di posti per effettuare il passaggio nello Sprar – situazione effettivamente verificatasi – il richiedente restava in accoglienza nei centri governativi (anche se aperti in via temporanea)".

Su questa base, alcune delle associazioni che gestivano i progetti nel borgo avevano inviato comunicazioni ad hoc sia al servizio centrale che alla prefettura. Dato già emerso dalle relazioni ispettive volute dall’allora prefetto reggino Michele di Bari, che determinarono la "decurtazione delle somme erogate per il periodo successivo". Inoltre, nel momento in cui alle persone veniva comunicata la possibilità che avrebbero dovuto abbandonare il progetto "venivano inscenate proteste che richiedevano l’intervento della forza pubblica". Da un lato, dunque, il ministero dell’Interno e la prefettura erano a conoscenza della situazione, dall’altra il Comune viveva una sorta di stasi. "In presenza dei presupposti di legge costoro andavano, al limite, espulsi, con provvedimento di competenza prefettizia e non certo del sindaco" o dei legali rappresentanti delle associazioni. Per i migranti del progetto Cas, invece, "la competenza all’espulsione spettava ai prefetti". A più riprese, Lucano, che oggi si dice "sollevato" da una sentenza che salvaguarda le idee prima ancora della persona, aveva ribadito la consapevolezza di quanto avvenisse a Riace da parte di ministero dell’Interno e prefettura: "Se a Riace è esistita un’associazione a delinquere, allora ne hanno fatto parte".

A Riace nessun profitto, solo solidarietà

"L'assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l'indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza sono indicatori meritevoli di considerazione"

In molti hanno parlato dell’indagine Xenia come di un atto politico e simbolico. Di certo, i giudici d’Appello non hanno condiviso la chiave di lettura che ha legato le azioni dell’ex sindaco di Riace a una "logica predatoria delle risorse pubbliche, ad appetiti di natura personale, a meccanismi illeciti e perversi fondati sulla cupidigia e sull'avidità", escludendo qualsiasi connotazione altruistica dalla personalità di Lucano "nei fatti sacrificata agli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcuna forma di pudore". Viceversa, "il collegio ritiene che la personalità dell'appellante (Mimmo Lucano, ndr), il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l'assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l'indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza siano indicatori meritevoli di considerazione".

(fonte: la via libera, articolo di Francesco Donnici 15/04/2024)

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Siria, torture e morti in detenzione nel nordest. Rapporto di Amnesty

Siria, torture e morti in detenzione nel nordest.
Rapporto di Amnesty

Oltre 56 mila persone arrestate dopo la sconfitta territoriale del gruppo armato Stato islamico subiscono violazioni o muoiono a causa delle condizioni inumane. 30 mila minorenni in almeno 27 centri di detenzione e nei due campi di Al-Hol e Roj. Le responsabilità degli Usa


Nel nordest della Siria, oltre 56 mila persone arrestate dopo la sconfitta territoriale del gruppo armato Stato islamico subiscono violazioni o muoiono, a causa delle condizioni inumane di detenzione. È quanto denuncia Amnesty International nel rapporto appena pubblicato, Conseguenze. Ingiustizia, torture e morti in detenzione nel nordest della Siria. Le autorità della regione autonoma sono responsabili della massiccia violazione dei diritti umani di circa 11.500 uomini, 14.500 donne e 30 mila minorenni detenuti in almeno 27 centri di detenzione e nei due campi di Al-Hol e Roj.

Come ricorda Amnesty, le autorità autonome sono il principale partner del governo statunitense e di altri membri della coalizione che ha sconfitto lo Stato islamico. “Gli Usa sono ampiamente coinvolti nel sistema detentivo – denuncia l'organizzazione”.

Trascorsi più di cinque anni dalla sconfitta territoriale dello Stato islamico, decine di migliaia di persone restano detenute arbitrariamente e a tempo indeterminato, molte delle quali in condizioni inumane, sottoposte a pestaggi, scariche elettriche e violenza di genere e obbligate a rimanere in posizioni dolorose. Altre migliaia di persone risultano vittime di sparizione forzata. Le donne sono state illegalmente separate dai loro figli. Tra le persone detenute ci sono anche vittime dello Stato islamico, tra cui decine, se non centinaia di yazidi, donne e ragazze vittime di matrimoni forzati e minorenni arruolati a forza.

“Le autorità autonome hanno commesso crimini di guerra, tortura e trattamento crudele e probabilmente anche quello di uccisione - ha dichiarato Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International - I minori, le donne e gli uomini che si trovano nei campi e nelle strutture detentive subiscono una crudeltà e una violenza scioccanti. Il governo statunitense ha avuto un ruolo centrale nella creazione e nel mantenimento di questo sistema detentivo, che ha prodotto centinaia di morti evitabili. Ora deve avere un ruolo nel cambiarlo – continua Callamard - Questo sistema viola i diritti umani di persone sospettate di affiliazione allo Stato islamico e non fornisce giustizia alle vittime e alle persone sopravvissute ai crimini dello Stato islamico”.

Se da un lato è vero che “la minaccia dello Stato islamico a livello globale resta concreta”, dall'altro “le violazioni dei diritti umani in corso nel nordest della Siria non fanno altro che alimentare ulteriore rabbia. Una generazione di bambine e bambini non ha conosciuto che ingiustizia. Le autorità autonome, che fanno parte della coalizione guidata dagli Usa, e le Nazioni Unite devono porre rimedio a queste violazioni e porre fine al ciclo di violenza”, ha sottolineato Callamard.

Le responsabilità degli Usa

Nel 2014 il dipartimento della Difesa degli Usa ha istituito una coalizione anti-Stato islamico. Ne facciano parte 29 stati e gli Usa sono responsabili della strategia, della pianificazione, del finanziamento e dell’attuazione della missione. Attraverso i finanziamenti del Congresso, la coalizione guidata dagli Usa ha ristrutturato i centri di detenzione esistenti, ne ha costruiti di nuovi e visita frequentemente gli uni e gli altri. Il dipartimento della Difesa ha fornito centinaia di milioni di dollari alle Fds e alle forze di sicurezza a loro affiliate. La coalizione guidata dagli Usa ha anche un ruolo importante nelle operazioni congiunte che terminano con la consegna alle Fds di persone arrestate e nei rimpatri di detenuti in paesi terzi, tra i quali l’Iraq.

Tra le persone detenute ci sono siriani, iracheni e cittadini di altri 74 stati. La maggior parte di loro è stata catturata nei primi mesi del 2019, durante la fase finale dei combattimenti con lo Stato islamico. Sono trattenute in due tipi di strutture: edifici chiusi, definiti “strutture detentive”, e campi all’aperto.

“Il governo statunitense ha contribuito all’istituzione e all’espansione di un sistema di detenzione per lo più illegale, caratterizzato da condizioni sistematicamente inumane e degradanti, da uccisioni illegali e dall’ampio uso della tortura. Anche se gli Usa possono aver fornito aiuto per migliorare le condizioni di prigionia o mitigare le violazioni dei diritti umani, questi interventi sono risultati insufficienti rispetto a quanto chiesto dal diritto internazionale - afferma Callamard - La coalizione guidata dagli Usa, insieme alla più ampia comunità internazionale, ha anche abbandonato le vittime dei crimini dello Stato islamico e le loro famiglie, che attendono ancora indagini efficaci e giustizia. Persone rastrellate dopo la sconfitta territoriale dello Stato islamico sono detenute illegalmente da anni. Le autorità autonome, il governo degli Usa e altri stati membri della coalizione, così come le Nazioni Unite, devono lavorare tutti insieme e dare priorità a sviluppare urgentemente una strategia per far sì che questo sistema vergognoso rispetti il diritto internazionale e per identificare soluzioni per chiamare finalmente a rispondere del loro operato gli autori delle atrocità commesse dallo Stato islamico. È necessario condurre un rapido processo di valutazione per identificare le persone detenute che dovrebbero essere immediatamente scarcerate, soprattutto le vittime dei crimini dello Stato islamico e i gruppi a rischio; e nel frattempo assicurare la fine delle violazioni dei diritti umani e indagini indipendenti sulle torture le uccisioni”, ha concluso Callamard.

L'impegno di Amnesty International

I ricercatori di Amnesty International si sono recati nel nordest della Siria in tre occasioni, tra settembre 2022 e agosto 2023, per condurre interviste nei due campi e in dieci strutture detentive. Amnesty International ha messo ampiamente al corrente delle proprie conclusioni le autorità autonome e il governo Usa, che hanno risposto in forma scritta.

Le autorità autonome hanno sottolineato le difficili condizioni in cui si trovano, compresi i conflitti armati in corso. Hanno criticato “la comunità internazionale e i partner globali” per non aver “dato seguito ai loro obblighi giuridici e morali” e sottolineato che gli stati che hanno loro cittadini nel sistema di detenzione e la comunità internazionale le hanno lasciate sole “nel gestire le conseguenze” dei combattimenti contro lo Stato islamico.

Da parte sua, il dipartimento di Stato Usa ha risposto descrivendo gli sforzi fatti per affrontare “le drammatiche sfide umanitarie e di sicurezza” nel nordest della Siria e ha precisato che i gruppi e le singole persone che fanno parte delle Fds con cui collabora “sono sottoposti a una rigorosa valutazione”. L’unica soluzione è, secondo le autorità statunitensi, “il rimpatrio e il ritorno delle persone sfollate e detenute nei rispettivi paesi di origine”, in modo che gli autori di crimini “siano chiamati a risponderne in procedimenti giudiziari, da parte delle autorità competenti, che rispettino i diritti umani”.
(fonte: Redattore Sociale 17/04/2024)

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Leggi il testo integrale del rapporto dal sito di Amnesty International


IL CARDINALE RAVASI: «ESISTE ANCHE UNA PREGHIERA MUTA, UNA DELLE PIÙ BELLE MAI ESISTITE»

IL CARDINALE RAVASI:
«ESISTE ANCHE UNA PREGHIERA MUTA,
UNA DELLE PIÙ BELLE MAI ESISTITE»

Il porporato sulle radici bibliche della preghiera: «I Salmi e le orazioni della Vergine Maria non sono solo una lode al Signore ma rappresentano anche la totalità della nostra esperienza intrisa di sofferenza e gioia»


Gianfranco Ravasi è uno dei cardinali più colti ed eclettici della Chiesa cattolica. Biblista, teologo, poliglotta, volto mediatico (per cinque lustri ha portato le Scritture ogni domenica mattina nelle case degli italiani in quella che Aldo Grasso definì “l’ultima oasi nel deserto della Tv”), è stato presidente del Pontificio Consiglio della Cultura dal 2007 al 2022. È una miniera di citazioni, da Kierkegaard a Teresa d’Avila, da Lutero a Bonhoeffer a Nietzsche, attraverso le quali ci conduce a esplorare la preghiera, esperienza capitale della vita cristiana spesso trascurata o soffocata da quelli che il cardinale definisce «alienazioni e miracolismi».

L’occasione dell’intervista è il libro La preghiera della Bibbia (San Paolo) che apre la collana di volumi dedicati all’Anno della preghiera indetto da papa Francesco in vista del Giubileo. Nel volume, Ravasi si sofferma su due grandi polmoni della preghiera nella Bibbia: i Salmi, la voce orante per eccellenza della Scrittura, e le preghiere alla Vergine Maria.

Eminenza, cosa significa pregare?

«Partirei da due testimonianze molto suggestive. La prima è quella del filosofo dell’Ottocento Kierkegaard che diceva: “Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera”. Essa è un elemento strutturale, quasi vitale dell’esperienza cristiana. La seconda è di un altro filosofo, Wittgenstein, il quale affermava lapidariamente che “pregare è pensare al senso della vita”, cogliendo un aspetto più laico, quello del momento del silenzio, del guardare nella coscienza. La preghiera, dunque, non ha solo un movimento verticale, quello del rivolgersi a Dio, ma anche uno orizzontale, entrare in sé stessi. La meditazione unisce preghiera e scavo nella coscienza».

Nel volume si parte dai Salmi dove s’intrecciano spiritualità e vita.

«Quello dei Salmi è il terzo libro biblico più ampio, dopo i testi di Geremia e della Genesi. Essi, da un lato, sono una rappresentazione profonda dell’esistenza umana e la loro preghiera non fa decollare dalla realtà verso cieli mitici, come invece accade in certe forme di devozione che sono alienazione e miracolismo. I Salmi, infatti, sono intrisi di lacrime, sorrisi, sofferenze, speranze, ringraziamenti. Un’anatomia dell’anima, secondo la definizione del riformatore Calvino. Dall’altro, permettono la contemplazione di Dio e di lodarlo. Non a caso, gli ebrei li definiscono telim, lodi a Dio. Uniscono, dunque, verticale e orizzontale. La selezione di diciassette Salmi presente nel libro è ben calibrata per offrire tutte le iridescenze e i colori del Salterio».

I Salmi rappresentano la forma più alta della preghiera biblica?

«Le rispondo con la citazione di un filosofo che ha respinto in maniera radicale il cristianesimo come Nietzsche, il quale affermava che “tra ciò che noi proviamo alla lettura di Pindaro o Petrarca e la lettura dei Salmi c’è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria”. Mentre un grande teologo come Dietrich Bonhoeffer, ucciso sotto il nazismo, affermava questo: “Sorprende a prima vista che nella Bibbia ci sia un libro di preghiera. La Bibbia non è tutta una parola di Dio rivolta a noi? Le preghiere sono parole umane. Come mai si trovano nella Bibbia? Se la Bibbia contiene un libro di preghiera dobbiamo dedurre che la Parola di Dio non è solo quella che Lui vuole rivolgere a noi ma è anche quella che lui vuole sentirsi rivolgere da noi”».

Ma come si impara a pregare?

«Questo e gli altri libri che seguiranno hanno proprio lo scopo di insegnare a pregare restando radicati nella Scrittura. Gesù stesso durante la sua vita terrena è stato un modello di preghiera. L’evangelista Luca lo presenta alla vigilia della Passione, sotto le fronde del Getsemani, mentre prega in maniera drammatica perché è desolato e si rivolge al Padre nel momento del dolore. È legittimo che quando sei travolto dalla tempesta tu ti rivolga a Dio. Non per nulla un terzo dei Salmi del Salterio sono suppliche e lamenti. Addirittura, c’è uno che si lamenta perché ha la febbre e un altro dell’inappetenza affermando che il cibo che mette in bocca gli sembra cenere».

L’altro filone è quello della tradizione mariana.

«Nella vita della Vergine Maria la preghiera assume una forma esistenziale completa. Parto da un dato di fatto molto curioso. Nei Vangeli, la Madonna parla soltanto sei volte pronunciando 154 parole in tutto e sempre con frasi brevissime: “Avvenga di me come tu hai detto”, “Fate tutto quello che Egli vi dirà”. Ebbene, di queste 154 parole, ben 102 appartengono a una sola preghiera: il Magnificat. È un canto per solista e coro e un ottimo modello di preghiera personale e comunitaria perché da un lato c’è l’esperienza personale, contrassegnata dalla ripetizione dell’aggettivo possessivo “mio”, e dall’altro quella dei fedeli che elencano le sette azioni di Dio: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Infine, c’è un’altra preghiera di Maria che è senza parole e si svolge sul Calvario, ai piedi della Croce, dove parla solo Gesù e le dice: “Donna, ecco il tuo figlio”. Maria resta in silenzio. Questo significa che esiste anche una preghiera muta e Dio la ascolta quando sale a Lui nel momento estremo della desolazione e del dolore. Non a caso, Lutero, commentando il libro di Giobbe affermava che “Dio gradisce di più le bestemmie dell’uomo disperato che non le lodi compassate del benpensante la domenica mattina nel culto”».
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Antonio Sanfrancesco 10/04/2024)

mercoledì 17 aprile 2024

Papa Francesco «La temperanza è la virtù della giusta misura... qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso.» Udienza Generale 17/04/2024 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 17 aprile 2024


Anche oggi il Papa ha cominciato l’udienza generale in piazza San Pietro facendo salire a bordo della papamobile quattro bambini, maschi e femmine, che si sono goduti il giro tra i settori delimitati dal colonnato del Bernini, fino al termine del tragitto che caratterizza il momento che precede la catechesi. Il Santo Padre si è accomiatato da ognuno dei suoi piccoli ospiti e poi ha proseguito il cammino sulla jeep bianca scoperta fino alla sua postazione al centro del sagrato, che ha raggiunto camminando con l’aiuto di un bastone. Oggi piazza San Pietro è gremita fino all’inverosimile, complice anche la mite mattinata romana. Le lunghe file dal lato del Sant’Uffizio e di via della Conciliazione si sono snodate fino all’ingresso di Papa Francesco nella piazza e anche oltre.
Con la temperanza, tema della catechesi del Papa all'udienza generale di oggi in Piazza San Pietro, si conclude la riflessione sulle quattro virtù cardinali a cui Francesco ci ha accompagnato nelle ultime settimane svelando le loro radici e la loro ricchezza per la nostra vita. "Per i greci - osserva il Papa - la pratica della virtù aveva come obbiettivo la felicità". "Non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie", afferma Francesco che descrive che cos'è la temperanza e chi è la persona temperante attingendo anche questa volta al pensiero degli antichi e rifacendosi al Catechismo della Chiesa Cattolica.












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Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.


Catechesi. I vizi e le virtù. 15. La temperanza


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parlerò della quarta e ultima virtù cardinale: la temperanza. Con le altre tre, questa virtù condivide una storia che risale molto indietro nel tempo e che non appartiene ai soli cristiani. Per i greci la pratica delle virtù aveva come obbiettivo la felicità. Il filosofo Aristotele scrive il suo più importante trattato di etica indirizzandolo al figlio Nicomaco, per istruirlo nell’arte del vivere. Perché tutti cerchiamo la felicità eppure così pochi la raggiungono? Questa è la domanda. Per rispondere ad essa Aristotele affronta il tema delle virtù, tra le quali ha uno spazio di rilievo la enkráteia, cioè la temperanza. Il termine greco significa letteralmente “potere su se stessi”. La temperanza è un potere su se stessi. Questa virtù è dunque la capacità di autodominio, l’arte di non farsi travolgere da passioni ribelli, di mettere ordine in quello che il Manzoni chiama il “guazzabuglio del cuore umano”.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che «la temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati». «Essa – prosegue il Catechismo – assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore» (n. 1809).

Dunque, la temperanza, come dice la parola italiana, è la virtù della giusta misura. In ogni situazione, si comporta con saggezza, perché le persone che agiscono mosse sempre dall’impeto o dall’esuberanza alla fine sono inaffidabili. Le persone senza temperanza sono sempre inaffidabili. In un mondo dove tanta gente si vanta di dire quello che pensa, la persona temperante preferisce invece pensare quello che dice. Capite la differenza? Non dire quello che mi viene in mente, così… No, pensare a quello che devo dire. Non fa promesse a vanvera, ma assume impegni nella misura in cui li può soddisfare.

Anche con i piaceri, la persona temperante agisce con giudizio. Il libero corso delle pulsioni e la totale licenza accordata ai piaceri, finiscono per ritorcersi contro noi stessi, facendoci precipitare in uno stato di noia. Quanta gente che ha voluto provare tutto con voracità si è ritrovata a perdere il gusto di ogni cosa! Meglio allora cercare la giusta misura: ad esempio, per apprezzare un buon vino, assaporarlo a piccoli sorsi è meglio che ingurgitarlo tutto d’un fiato. Tutti sappiamo questo.

La persona temperante sa pesare e dosare bene le parole. Pensa a quello che dice. Non permette che un momento di rabbia rovini relazioni e amicizie che poi solo con fatica potranno essere ricostruite. Specialmente nella vita famigliare, dove le inibizioni si abbassano, tutti corriamo il rischio di non tenere a freno tensioni, irritazioni, arrabbiature. C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere, ma entrambi richiedono la giusta misura. E questo vale per tante cose, ad esempio lo stare con gli altri e lo stare da soli.

Se la persona temperante sa controllare la propria irascibilità, non per questo la vedremo perennemente con il volto pacifico e sorridente. Infatti, qualche volta è necessario indignarsi, ma sempre nella giusta maniera. Queste sono le parole: la giusta misura, la giusta maniera. Una parola di rimprovero a volte è più salutare rispetto a un silenzio acido e rancoroso. Il temperante sa che nulla è più scomodo del correggere un altro, ma sa anche che è necessario: altrimenti si offrirebbe libero campo al male. In certi casi, il temperante riesce a tenere insieme gli estremi: afferma i principi assoluti, rivendica i valori non negoziabili, ma sa anche comprendere le persone e dimostra empatia per esse. Dimostra empatia.

Il dono del temperante è dunque l’equilibrio, qualità tanto preziosa quanto rara. Tutto, infatti, nel nostro mondo spinge all’eccesso. Invece la temperanza si sposa bene con atteggiamenti evangelici quali la piccolezza, la discrezione, il nascondimento, la mitezza. Chi è temperante apprezza la stima degli altri, ma non ne fa l’unico criterio di ogni azione e di ogni parola. È sensibile, sa piangere e non se ne vergogna, ma non si piange addosso. Sconfitto, si rialza; vincitore, è capace di tornare alla vita nascosta di sempre. Non cerca gli applausi, ma sa di avere bisogno degli altri.

Fratelli e sorelle, non è vero che la temperanza rende grigi e privi di gioie. Anzi, fa gustare meglio i beni della vita: lo stare insieme a tavola, la tenerezza di certe amicizie, la confidenza con le persone sagge, lo stupore per le bellezze del creato. La felicità con la temperanza è letizia che fiorisce nel cuore di chi riconosce e dà valore a ciò che più conta nella vita. Preghiamo il Signore perché ci dia questo dono: il dono della maturità, della maturità dell’età, della maturità affettiva, della maturità sociale. Il dono della temperanza.

Guarda il video della catechesi

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Saluti
...
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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare...

Il mio pensiero va infine ai malati, agli anziani, agli sposi novelli e ai giovani, specialmente ai tanti studenti che ci rallegrano con la loro presenza. A ciascuno il mio augurio perché, partendo dalla Città Eterna e tornando nei rispettivi ambienti di vita, portiate la testimonianza di un impegno rinnovato di fede operosa, contribuendo così a far risplendere nel mondo la luce di Cristo risorto.

E anche il nostro pensiero, di tutti noi, in questo momento va alle popolazioni in guerra. Pensiamo alla Terra Santa, alla Palestina, a Israele. Pensiamo all’Ucraina, la martoriata Ucraina. Pensiamo ai prigionieri di guerra: che il Signore muova la volontà per liberarli tutti. E parlando dei prigionieri, mi vengono in mente coloro che sono torturati. La tortura dei prigionieri è una cosa bruttissima, non è umana. Pensiamo a tante torture che feriscono la dignità della persona, e a tanti torturati. Il Signore aiuti tutti e benedica tutti.

E a tutti voi la mia benedizione!

Guarda il video integrale


Giancarla Codrignani ELEZIONI EUROPEE: SOLO UN DOVERE O UN INTERESSE?

Giancarla Codrignani

ELEZIONI EUROPEE:
SOLO UN DOVERE O UN INTERESSE?


Agosto 1941: faceva caldo, c’era la guerra ma nessuno pensava ai bombardamenti e la gente era andata in villeggiatura.

A Ventotene, dove il regime chiamava “villeggiatura” il confino, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni pubblicavano (nel senso che le mogli in visita ai reclusi l’avrebbero portato fuori per la diffusione clandestina) un loro Manifesto per un’Europa libera e unita.

Lo spirito di Ventotene si è indebolito

Ottantatré anni dopo, nel 2024 fa già caldo, è tornata la guerra, le destre trovano larghi consensi in elettorati che vanno sempre meno a votare e in Italia sono al governo gli eredi del regime che mandò a Ventotene i patrioti antifascisti. Purtroppo sembra che i più giovani non abbiano la minima idea della vitalità morale e politica di patrioti come Altiero Spinelli che, scampato al fascismo e alla seconda guerra mondiale, pazientemente attese la realizzazione – nel 1979 – del primo Parlamento europeo.

C’era ancora la CEE, Comunità Economica Europea, non c’era la moneta unica, ma le idee di Spinelli circolavano, la gente votava e – a tappe contrastate, ma effettive – l’Europa riuscì a diventare l’Unione Europea che oggi, nel 2024, stava arrivando a celebrare ottant’anni di pace. Non era mai successo.

Il contesto geopolitico

Invece, non solo la spinta propulsiva della democrazia si è affievolita, ma siamo ripiombati in guerre che non restano lontane e indifferenti, ma ci riguardano da vicino e danno un brivido di angoscia quando ci si rende conto che da anni papa Francesco avverte che stiamo già dentro la terza guerra mondiale. Abbiamo celebrato la terza Pasqua di guerra russo-ucraina: a prescindere dal diritto dell’Ucraina a sentirsi europea e occidentale mentre lo zar dell’Oriente Putin lo giudica impossibile perché la “Santa Russia” nel 988 nacque a Kiev, non solo è una guerra derivata dal conflitto Est/Ovest di una volta, ma nei metodi è tornata alla prima guerra mondiale con i missili al posto dei cannoni e aspetta Caporetto.

Altra la guerra – uscita dall’incubazione della risoluzione Onu del 1947 che divideva la Palestina in due parti, una per gli arabi e una per gli ebrei – che perpetua lo scontro “inopinatamente” voluto dall’impossibile accordo a carico di chi riceveva il diritto a occupare un territorio e chi ne era il titolare perché ci era nato. Fin dall’origine – per giunta nell’impossibilità delle Nazioni Unite sia di rendere esecutive le risoluzioni di condanna degli abusi, sia di superare i veti americani nel Consiglio di Sicurezza – era necessario un mediatore terzo per negoziare passo dopo passo la difficile convivenza: toccava all’Europa, che nel suo desolante ritardo non ha ancora l’unità politica che le consenta di intervenire. D’altra parte dei paesi membri dell’Ue nessuno ha mai preso l’iniziativa sapendola arbitraria. Ormai non si piange sul latte versato: ci si tiene la responsabilità di dover provvedere nella situazione estrema. Gli arabi sembrano cauti nel prender posizione dopo aver visto abortire gli accordi di Abramo che sembravano chiudere una situazione insostenibile.

La Cina è altrettanto prudente in una situazione che può allargarsi “a piacere” e degenerare. Gli huthi hanno preso posizione a sostegno di Hamas bloccando il mar Rosso, ma il Medioriente intero, Libano e Siria compresi è nevrotizzato. Gli Usa per la prima volta non sono ricorsi al veto a favore di Israele, sia perché negli Usa la lobby araba non è meno potente della lobby ebraica, sia perché il sostegno a Israele è inaccettabile.

Infatti il pogrom compiuto da un’Hamas carico di odio e ferocia il 7 febbraio ha riportato gli israeliani anche ostili al governo attuale alla loro coscienza profonda di ebrei e al rimosso delle persecuzioni. Dio – l’interrogativo tragico “dov’era ad Aushwitz?” – non c’entra più, se non nelle dichiarazioni dei leader: sia Netaniahu (la Bibbia dice “c’è un tempo per la pace e un tempo per la guerra”; io dico che questo è il tempo della guerra) che Sinwar (dallo statuto di Hamas: “Dio è la nostra guida, Muhammad il nostro leader, il jihad il nostro metodo”) nominano invano lo stesso Dio, come se fossimo ancora uomini delle crociate, quando agivamo a parti rovesciate. E Macron fa capire a Putin che l’Europa può mobilitare le sue truppe sul fronte ucraino e, se lui minaccia il nucleare, la Francia è pronta.

L’incerto contesto interno

In un contesto così andiamo a votare un nuovo Parlamento europeo. La depressione fa il suo effetto e per ora la sinistra – per chiarire: tutti quelli che non sono di destra, ma ci tengono a dichiararsi antifascisti – non alza la voce a sostenere i propri pericolanti diritti, distratta dai propri leader, tutti alle prese con le liste dei candidati. Il cittadino deve tuttavia capire che, se in una congiuntura economico-finanziaria ancora positiva, l’Italia vede crescere le disuguaglianze, subisce tagli micidiali alla sanità ormai privatizzata, assiste a misure di riarmo impensabili solo due anni fa all’uscita dalla pandemia, significa che la guerra sta già presentando il conto e non bisogna più farsene solo una ragione.

Non si fa la resistenza quando si arriva a Ventotene, ma quando c’è tempo per non andare in rovina. Opportuna una lettura del Manifesto di Altiero Spinelli, che, da parlamentare europeo, continuò fino alla morte a battersi nel lento evolversi dell’Unione, sconfitta dietro sconfitta, delusione dopo delusione. Serve per rinfrescare le idee sui principi, i diritti e i doveri, ma anche per imparare a “fare politica” da un punto di vista comunitario e riconoscersi, davvero, cittadini non solo italiani, ma anche europei in attesa di diventare – se prevarrà la pace – cittadini del mondo.

Infatti perfino i migliori, gli inattaccabili dal consumismo, gli antifascisti diffidano di un’altra istituzione che non conta nulla, nella quale il singolo elettore conta ancor meno.

Invece sono proprio gli interessi, quelli materiali che toccano la vita quotidiana, a sollecitare il voto europeo. L’Europa, almeno per l’agroalimentare, è il mercato più grande del mondo, superiore agli Usa; ma se gli emiliani dovessero produrre il parmigiano per grattugiarlo sulle lasagne, finirebbero per non potersi più permettere neppure le lasagne.

C’è bisogno, però, di mantenere il massimo di unità: se a giugno in Francia vincesse Le Pen e in Italia Meloni, il nuovo Parlamento avrebbe grosse difficoltà ad arginare il Consiglio (dei Capi di Stato e di governo) con una maggioranza reazionaria. Eppure le destre trovano larghi consensi, la gente non sa se andrà a votare; senza un pensiero al fatto che in Italia il governo in carica, eletto da due terzi dell’elettorato, lascia non rappresentato un terzo del paese.

Le questioni che ci attendono

Perdere la speranza non giova: basta chiederlo agli inglesi che, scontenti dell’UE, vorrebbero tornarci dentro di corsa.

Se al tempo del covid l’Europa non avesse distribuito i vaccini gratis, le bare si sarebbero moltiplicate. Abbiamo la moneta unica in 20 Stati membri: manca una legislazione fiscale comune che, in qualche modo già elaborata da Draghi, dovrà essere uno dei compiti del prossimo Parlamento. Che sono tanti.

Se l’Onu ha la palla al piede del veto al Consiglio di Sicurezza, l’UE è intrigata dal principio dell’unanimità: entrambe dovrebbero tentare una politica internazionale dei diritti umani, anche nei confronti della Nato. Anche l’Europa aspetta le elezioni americane; ma sa che, chiunque vinca, a giugno deve rafforzare le proprie istituzioni.

La complessità delle innovazioni tecnologiche chiede regole condivise per evitare arbitri di poteri ancora incontrollabili: a Bologna, centro europeo per la meteorologia, Leonardo è uno dei quattro massimi elaboratori mondiali in grado di svolgere 250mila mld. di operazioni in un minuto. Potrà servire alla sanità se l’assistenza sanitaria personalizzerà ognuno dei nostri 60 milioni di individui, ma intanto gli italiani stanno perdendo il diritto a restare in salute e ad essere curati se malati.

Il futuro sarà pure inedito, ma incoraggia a pensare il meglio se lo si vuole vedere possibile. La questione climatica impone sia la progettazione sia la condivisione delle politiche: nemmeno i nazionalisti possono più praticare l’autarchia.

Ma anche in Europa c’è bisogno di miglior giustizia: la produzione e il lavoro lo esigono, ma anche i diritti umani, la nonviolenza educativa, la lotta alla violenza di genere, le questioni debitorie, le politiche migratorie, tutte politiche all’ordine del giorno nei singoli paesi che chiedono una condivisione dentro la volontà comune dell’intero continente. Dove corre pericolo la democrazia, che in queste elezioni è tutt’uno con l’Europa.
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: https://www.perlapace.it/]
(fonte: Viandanti 06/04/2024)

martedì 16 aprile 2024

Alessandro D'Avenia Il dio del vino

Alessandro D'Avenia
Il dio del vino


Corriere della Sera, 25 marzo 2024

Anni fa durante un’arcigna predica domenicale un ragazzo mi chiese: “Ma Gesù non ride mai?”. Mi sono ricordato dell’episodio in questo periodo pasquale. Gli dissi che Cristo non è l’erogatore di precetti che compare spesso nelle prediche ma l’audace autore di una frase per me decisiva: “Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in sovrabbondanza” (Gv 10,10). Nietzsche ha accusato il cristianesimo di proiettare la vita vera dopo la morte e di togliere quindi energia all’esistenza qui sulla terra, consolando gli uomini con una morale da sottomessi. Affermava di non poter credere a un dio che non balla, e a Cristo preferiva Dioniso, il dio greco del vino e dell’ebbrezza. Per me è il contrario, infatti, in tema di vino e balli, raccontai al ragazzo che Cristo ride. Nel villaggio di Cana in Galilea, operò infatti il primo segno di quella missione di dare agli uomini, già sulla terra, vita in abbondanza: durante una festa di nozze, in cui avrà ballato come era costume, trasformò sei damigiane d’acqua (250 litri) in vino, perché gli ospiti se lo erano già scolato tutto. Non solo ballò ma diede “spirito” a chi lo aveva esaurito ed era così buono che il maestro di tavola criticò gli sposi per aver lasciato l’annata migliore alla fine (Gv 2,1-11).

Per rispondere al ragazzo avevo rubato le parole a Dostoevskij che, in un capitolo chiave dei Fratelli Karamazov dedicato all’episodio e intitolato proprio Cana di Galilea, scorge uno di quei sorrisi che il ragazzo cercava e spiega perché.

Alëša, il più giovane dei fratelli Karamazov, riportando il dialogo con il suo maestro spirituale racconta: «Amo molto quel passo: sono le nozze di Cana di Galilea, il primo miracolo. Ah, quel miracolo, quanto mi è caro quel miracolo! Cristo visitò la gioia degli uomini, non il dolore, e compiendo il suo primo miracolo, contribuì a dar gioia agli uomini. Chi ama gli uomini, ama pure la loro gioia… A quel tempo le popolazioni che abitavano intorno al lago di Genezareth erano le più povere che si possa immaginare… “L’ora mia non è ancora arrivata” dice con un sorriso… E infatti era forse venuto sulla terra per moltiplicare il vino alle nozze dei poveri?». Dostoevskij intuisce che il segno inaugurale dell’agire pubblico di Cristo racchiude tutto e aggiunge: “Egli si è fatto uguale a noi per amore, e gioisce insieme a noi, converte l’acqua in vino per non interrompere la gioia degli ospiti, aspetta nuovi ospiti, ne invita continuamente di nuovi, e così nei secoli dei secoli”. Insomma Dio vuole la gioia dell’uomo, vuole che la festa continui, e più ancora che ballare ama vedere gli uomini ballare. La Pasqua che stiamo per celebrare, credenti o no, resta una narrazione dirompente.

Il filosofo Byung-Chul Han nel suo libro “La crisi della narrazione”, spiega come la nostra cultura sia fatta spesso di una comunicazione senza comunità, comunità che si forma solo grazie a una narrazione che dà senso al tempo e allo spazio: “La religione è un caso esemplare di narrazione con un momento di verità interno. Narrando essa spazza via la contingenza. La religione cristiana è una meta-narrazione che cattura ogni aspetto della vita e le dà un ancoraggio all’essere. Il tempo stesso viene caricato di aspetti narrativi. Il calendario cristiano fa apparire ogni giorno come significativo. Nell’epoca post-narrativa il calendario è de-narrativizzato, diventa un’agenda svuotata di senso. Le festività religiose sono momenti culminanti e rilevanti all’interno di un racconto. Senza racconto non si dà alcuna festività, nessun tempo di festa, nessun sentimento di celebrazione, cioè nessuna intensificazione emotiva dell’essere”. Il discorso del filosofo non è apologetico né nostalgico, ma critico della narrazione oggi dominante, quella consumistica, che ha sostituito ogni altra narrazione e ritualità, il vangelo che ai “santi” ha sostituito i “saldi”: “Di contro si danno solo il tempo del lavoro e il tempo libero, il tempo della produzione e quello del consumo. In un’epoca post-narrativa le feste diventano merci, assumendo la forma di eventi e spettacoli. Anche i rituali sono pratiche narrative. Nel loro essere tecniche simboliche per abitare il mondo, i riti trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa”. Il mondo non è casa ma oggetto consumabile, e la vita una lotta contro la noia e la paura.

La Pasqua invece è una risorsa narrativa significativa anche per chi non crede, fosse anche solo per la pausa festiva (meno sentita perché, uova e colombe a parte, con quella croce in mezzo non è così facile da trasformare in una narrazione consumistica come il Natale). Perché? Quale trama offre alla storia umana? Questa: un uomo laico (cioè del popolo, dal greco laos, popolo), nel senso che non apparteneva a una categoria religiosa (era un falegname), viene messo a morte dal potere politico e religioso. Era pericoloso proprio perché era un laico che attraeva la gente sottraendo consenso al potere, quello religioso (che era anche politico: i sacerdoti erano i capi del popolo) e quello politico dei Romani, Pilato infatti fa uccidere Gesù per paura di una sommossa aizzata dai capi religiosi. Il prefetto romano della Giudea non vuole perdere la guida di una regione ricca ma difficile, infatti pur avendo verificato l’innocenza del condannato, se ne lava le mani e lo manda a morte: la vita di un uomo si può ben sacrificare al consenso. Cristo era venuto a mostrare il contrario: solo l’amore non sacrifica, ma si sacrifica, mentre il potere non si sacrifica, ma sacrifica. Dice ancora Byung-Chul Han nel libro citato: “Vivere è narrare. L’essere umano si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La prassi narrativa ha la forza di un nuovo inizio. Ogni azione che avvia una trasformazione nel mondo presuppone una narrazione”.

La Pasqua è il culmine della narrazione iniziata a Cana che contiene, come intuisce Dostoevskij facendone la chiave di volta del suo capolavoro, l’energia per una trasformazione del mondo: siamo fatti per una festa che non finisce ma non abbiamo abbastanza vino, il vino (la gioia) che l’uomo produce non è sufficiente a soddisfare la gioia per cui siamo fatti e a cui aspiriamo. Serve il “di-vino”. Un uomo, un laico, il cui primo gesto eclatante per manifestare questa possibilità è fare 250 bottiglie d’annata perché una festa di matrimonio non finisca, viene messo a morte dal potere politico-religioso che vede in questa gioiosa libertà una minaccia. Il mio augurio è che questa storia ci ricordi, credenti o no, che siamo invitati a una festa infinita a partire da questo lunedì, ma perché questa gioia sia possibile sono necessari una grazia divina e un coraggioso resistere e abbattere tutte le forme di potere che, pur di mantenersi, sono pronte a (s-)opprimere gli innocenti. Allora come oggi, non sanno quello che fanno. Buona Pasqua.
(fonte: sito dell'autore)


Mons. Gianfranco Ravasi Le parole shock di Gesù / 8 Se uno viene a me e non odia

Mons. Gianfranco Ravasi
Le parole shock di Gesù / 8
Se uno viene a me e non odia 
 

Se uno viene a me
e non odia suo padre,
sua madre…
e persino la propria vita,
non può essere mio discepolo.
(Luca, 14, 26)


È mai possibile che quel Gesù, «mite e umile di cuore» che invitava a porgere l’altra guancia, al perdono senza riserve, all’amore come legge fondamentale e primo comandamento, ci esorti — per essere suoi discepoli — a “odiare” padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e persino se stessi? È significativo che l’evangelista Matteo abbia riferito questa frase di Cristo secondo una modalità ben differente: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio e figlia più di me, non è degno di me» (Matteo, 10, 37).

La spiegazione di quella affermazione così sconcertante di Gesù è da cercare nel sottofondo linguistico che talvolta affiora nel dettato greco dei Vangeli. Come è noto, al di là di qualche ipotesi avanzata riguardo all’opera di Matteo, è indubbio che la stesura dei Vangeli — specialmente quello di Luca che rivela un greco abbastanza raffinato — è avvenuta in quella lingua che allora dominava nell’impero romano, quasi un po’ come accade ai nostri giorni per l’inglese. Tuttavia, quegli scritti rivelano spesso in filigrana la matrice della lingua originaria dei loro autori o almeno riflettono la loro formazione e, in particolare per le frasi di Gesù, l’originale aramaico con cui egli si esprimeva.

Ora, in ebraico e aramaico non si ha il comparativo, ma si usano solo le forme assolute. Così, per dire “amare meno” si adotta l’estremo opposto all’“amare”, cioè l’“odiare”. Il senso della frase, tanto forte ai nostri orecchi, in realtà vuole più pacatamente affermare quanto propongono alcune versioni moderne, come quella della Conferenza episcopale italiana che traduce il nostro versetto in questo modo, sulla scia del parallelo di Matteo: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre…, non può essere mio discepolo». Oppure si potrebbe anche tradurre: «Se uno viene a me e mi ama meno di quanto ami suo padre (...), non può essere mio discepolo».

In questa dichiarazione ritroviamo una componente caratteristica della predicazione e delle scelte di Gesù: la sua è una chiamata che esige un impegno forte, un distacco da tante abitudini, un orientamento radicale verso di lui e il Regno di Dio. Per esprimere questa esigenza egli non esita a ricorrere al paradosso: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Giovanni 12, 25). E i discepoli impareranno che talora questa non è solo un’espressione intensa di stile orientale, ma è anche una verità che si attua con la testimonianza del martirio.
(fonte: L'Osservatore Romano 9 marzo 2024)

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Vedi anche i post precedenti:

lunedì 15 aprile 2024

Massimo De Angelis Cambiare il mondo

Massimo De Angelis
Cambiare il mondo

Foto di Casa delle agricolture di Castiglione d’Otranto

Vi sono oggi tre approcci generali alla questione “cambiare il mondo”. Il primo: pensa a sopravvivere, non c’è speranza, il mondo non si può cambiare ed è velleitario pensarlo. Il secondo: la speranza del cambiamento è nella lotta dei subalterni, mobilita e fatti mobilitare. Il terzo: la speranza è nella costruzione di piccole realtà alternative più o meno autosufficienti, basate sulla condivisione, sulle buone maniere e sui buoni rapporti di vicinato…. se solo tutti facessero così. Nessuno di questi approcci è soddisfacente dentro l’ordine delle cose contemporaneo, eppure ognuno ha un suo nocciolo razionale, comprensibile e condivisibile.

Approccio numero 1. Pensare alla propria sopravvivenza a fronte di guerre competitive economiche o armate che siano, di fronte ai disastri climatici, di fronte alla persistenza del razzismo e del patriarcato è imperativo comprensibile nel qui e ora. Ognuno tenta di sopravvivere come può. Tuttavia se si lascia correre il mondo la sua corsa così come è, cioè dentro i meccanismi che lo riproducono, le tendenze in atto rendono la sopravvivenza dei corpi, della salute mentale e del pianeta come abitabile sempre più difficile, e quasi impossibile da immaginare, e ciò ci conduce alla proiezione distopica di un futuro immanente alla mad max, cioè della guerra di tutti contro tutti, o di una società di controllo totale come quella di Orwelliana memoria (o della coesistenza di entrambi). L’estinzione della specie umana, a parte i pochi miliardari scappati nello spazio, sta poi sullo sfondo di queste tendenze. Pensare alla propria sopravvivenza allora va bene, ma non basta.

Foto di Luca Perino

Approccio numero 2. La lotta collettiva è la grande fonte di cambiamento, la lotta che al minimo punta alla riforma, e al limite punta al rivoluzionamento del modo di operare del mondo. In effetti, senza lotta dei subalterni, non c’è alcuna possibilità di cambiamento. Il dominio non affranca i subalterni di sua volontà, senza che questi ultimi abbiano innalzato sostanzialmente, attraverso la lotta, i costi dell’inazione per i dominanti. Ma la storia ci ha insegnato non solo che in questo mondo le lotte si reprimono con la galera e con il sangue, e che prima di cambiare qualcosa di sostanziale il sangue da versare non è poco. È la storia di tutte le rivoluzioni. Ci ha anche insegnato che i cambiamenti concessi dentro l’ordine delle cose di questo mondo, non ne modificano sostanzialmente il suo operare, al massimo ne ridistribuiscono i costi dentro la gerarchia salariale dei subalterni che popolano il mondo. Cos’è una delocalizzazione produttiva, se non un sottrarre ai diritti conquistati di chi ha una storia industriale di lotta, per dare lavoro (più intenso) e reddito (inferiore) a chi, da un’altra parte del mondo, ha lottato per gli stessi diritti ma in condizioni diverse? Cos’è la politica ambientale perseguita al fine della crescita economica, se non il tentativo di una parte del mondo di rispondere alle lotte ambientali, a discapito di quella parte del mondo che vedrà aumentare l’estrattivismo distruttivo di ecologie e di modi di vita necessari a produrre sempre più materiali necessari alla rivoluzione verde e alla fine aumentare i gas climalteranti per tutti? Inoltre, la storia del capitalismo in generale ci mostra come questo ordine delle cose sia stato allo stesso tempo sempre in cambiamento (anche a fronte dei numerosi movimenti che lo hanno attraversato) ma senza cambiare nulla di sostanziale, cioè un ordine delle cose basato sulla crescita infinita in un pianeta limitato, e sulla riproduzione allargata di gerarchie di condizioni di vita, reddito e potere. La lotta allora va bene, ma non basta.

Foto di Desinformémonos

Approccio numero 3. A fronte del caos del mondo, costruiamo commons, cioè luoghi di cooperazione pacifica e non competitiva, conviviali, di condivisione, di ricerca di nuove relazioni sociali e produttive tra i membri della comunità che li abitano, e di nuova sensibilità verso la natura non-umana. Luoghi dove si cerca di elevare sempre più il livello di autosufficienza dal grande mercato, dove le comunità che li abitano elaborano insieme le regole a seconda di un etica in contrasto con quella dell’ordine delle cose dominanti. E in effetti, per costruire un nuovo mondo è proprio necessario mettere delle teste e dei corpi insieme a cooperare dove si può organizzare la propria sopravvivenza in comune con altri su altri valori. Se tutti facessero così… Il problema nasce dal fatto che non tutti possono fare così: mancano l’accesso alla terra, agli edifici, al denaro, non per carenza di queste ma per la distribuzione iniqua della ricchezza sociale e per le svariate forme di esclusione. Ma anche quando la possibilità di mettere insieme le risorse ci sarebbe, mancano spesso forme di immaginario e di coscienza che riescano a intravedere la plasticità del reale e l’allargamento degli orizzonti delle possibilità dei soggetti: d’altra parte cresce la disperazione nel mondo, e il senso di impotenza ad esso collegato. Inoltre, la prospettiva del piccolo luogo di pace e di comunità si scontra col fatto che parte dei suoi bisogni – a meno di una completa regressione tecnologica e di un totale isolamento dal resto del mondo – è espletato dal suo collegamento col mondo e i suoi prodotti (infrastrutture comunicative, medicine, materiali, macchine, prodotti culturali) e alle corrispondenti reti di sfruttamento umano e naturale. Anche il piccolo enclave virtuoso dunque partecipa alla riproduzione dei vizi del mondo, e se tutti seguissero il suo esempio, non vi sarebbero più infrastrutture comuni: niente sanità e ospedali, strade e internet, penne a sfera e libri. Ora, c’è chi desidera un mondo così, ma non sono tra quelli. Infine, tale approccio dimentica che nel mondo opera una forza espansiva che si chiama capitale, e che la sua “civiltà” , ha raggiunto anche le ultime popolazioni sconosciute dell’Amazzonia, e non esiterà, datagli l’occasione e la motivazione, a depredare delle sue risorse anche l’ultima enclave comunitaria dei virtuosi.

Allora che dire, ha forse ragione il primo approccio che non c’è speranza? No, credo invece che occorra meticciare i due ultimi approcci. Per esempio i commons dell’approccio 3 non possono sopravvivere senza esercitare nel mondo la propria influenza e cercare di espandersi e viceversa, senza che le soggettività moltitudinarie del mondo esercitino la loro influenza sui commons. Questi ultimi dunque non si possono considerare come enclavi, ma sistemi sociali dai confini porosi, aperti sul mondo per favorire la nascita di nuove congiunzioni con altri soggetti, che permette l’espansione, l’evoluzione e la crescita dei commons stessi. Considerati in questo modo, i commons non sono più solo luoghi-altri separati dal mondo, ma luoghi-altri che da dentro il mondo operano nel mondo trasformandolo attraverso la loro espansione. Dentro il mondo significa dentro le fabbriche, dentro gli ospedali e i sistemi sanitari, dentro le scuole e le università, i quartieri e le città, e trasversalmente a tutto ciò. Ma la crescita dei commons si basa sul fatto che sempre più soggetti partecipino nei commons e sempre più commons si relazionino tra loro per dar forma a ecologie di commons con cui sostenere sempre i bisogni collettivi della riproduzione sociale, riducendo così la dipendenza materiale e dell’immaginario dall’ordine delle cose dominante. Per far questo, in un mondo dove la ricchezza sociale è accentrata in poche mani, e le regole degli stati sono sempre più orientate a dare mano libera ai processi competitivi e di accentramento della ricchezza prodotta ad essa collegata, nonché a fagocitare la guerra e la distruzione ambientale, i commons non possono neanche sopravvivere senza la lotta, così come le ragioni della lotta non troveranno mai attuazione senza commons. Cos’è la lotta infatti, se non una forma di fare e agire in comune? E i fautori del primo approccio si mettano il cuore in pace: non ci sarà sopravvivenza di nessuno, senza sopravvivenza collettiva.
(fonte: COMUNE-INFO 14/04/2024)