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lunedì 18 marzo 2024

Cardinale Raniero Cantalamessa: "I miracoli quotidiani della speranza" - La quarta predica di Quaresima alla presenza del Pontefice

Cardinale Raniero Cantalamessa:
"I miracoli quotidiani della speranza"

La quarta predica di Quaresima alla presenza del Pontefice


«I miracoli quotidiani della speranza» sono stati al centro della quarta predica di Quaresima, tenuta dal cardinale Raniero Cantalamessa stamane, venerdì 15 marzo, nell’Aula Paolo VI , alla presenza di Papa Francesco.

Proseguendo il ciclo di riflessioni sui solenni «Io sono» di Cristo nel Vangelo di Giovanni, il predicatore della Casa pontificia si è soffermato sul capitolo 11, tutto occupato dall’episodio della risurrezione di Lazzaro. Ne è scaturito un elogio della speranza cristiana quale «grande taumaturga, operatrice di miracoli», capace di rimettere «in piedi migliaia di storpi e paralitici spirituali, migliaia di volte», ha detto riferendosi all’episodio — narrato negli Atti degli Apostoli — della guarigione dello storpio che chiedeva l’elemosina davanti alla Porta Bella del tempio di Gerusalemme.

«Ciò che è straordinario nella speranza è che la sua presenza cambia tutto, anche quando esteriormente non cambia nulla» ha commentato il porporato cappuccino, ricordando come essa sia descritta attraverso le immagini — legate al mondo della navigazione — dell’ancora o della vela. Se la prima «è ciò che dà sicurezza alla barca e la mantiene ferma tra le onde del mare», la seconda «è ciò che la fa muovere e avanzare». E «in entrambi i modi» essa «opera nei riguardi della barca che è la Chiesa» e in quelli della «barchetta della nostra vita: raccoglie il vento e senza rumore lo trasforma in una forza motrice» oppure «nelle mani di un buon marinaio, è in grado di sfruttare qualsiasi vento, da qualsiasi direzione spiri, per muovere nella direzione desiderata».

Infatti, ha proseguito il predicatore, «innanzitutto la speranza ci viene in aiuto nel nostro personale cammino di santificazione», diventando «in chi la esercita, il principio del progresso spirituale. Essa è sempre all’erta per scoprire nuove “occasioni di bene” realizzabili. Perciò non permette di adagiarsi nella tiepidezza e nell’accidia». Del resto, essa «non è una disposizione interiore bella e poetica che fa sognare e costruire mondi immaginari. Al contrario, è molto concreta e pratica. Passa il suo tempo mettendoti sempre davanti compiti da svolgere». Di più, «scopre sempre qualcosa che si può fare per migliorare la situazione: lavorare di più, essere più obbedienti, più umili, più mortificati». E quando dovesse sembrare che non ci sia «più nulla da fare, la speranza ci indica comunque un compito: resistere fino alla fine e non perdere la pazienza» ha raccomandato Cantalamessa citando il filosofo Kierkegaard.

Del resto, ha continuato il predicatore, «la speranza ha un rapporto privilegiato, nel Nuovo Testamento, con la pazienza. È il contrario dell’impazienza, della fretta, del “tutto e subito”. È l’antidoto allo scoraggiamento. Mantiene vivo il desiderio. È anche una grande pedagoga, che non indica tutto in una volta, ma ti mette davanti una possibilità alla volta. Dà solo “il pane quotidiano”. Distribuisce lo sforzo e permette così di realizzarlo». Per tale motivo, ha fatto notare il cardinale «la speranza ha bisogno della tribolazione come la fiamma ha bisogno del vento per rafforzarsi. Le ragioni terrene di speranza devono morire, una dopo l’altra, perché emerga la vera ragione incrollabile che è Dio». Un po’ come accade «nel varo di una nave. È necessario che vengano rimosse le impalcature e portati via uno dopo l’altro i vari puntelli, perché possa galleggiare e avanzare liberamente sull’acqua».

In effetti, ha concluso il religioso cappuccino, «la tribolazione ci toglie ogni “presa” e ci porta a sperare solo in Dio» conducendo «a quello stato di perfezione che consiste nel continuare a sperare confidando» in Lui, «anche quando ogni ragione umana per sperare è scomparsa». Come fu per Maria sotto la croce, che perciò è invocata nella «pietà cristiana con il titolo di Mater Spei, Madre della speranza».

A ispirare tali pensieri sulla «forza trasformatrice della speranza» era stato, come accennato, l’episodio della risurrezione di Lazzaro, la quale — ha spiegato Cantalamessa — ha come conseguenza la condanna a morte di Gesù; mentre quest’ultima a sua volta «provoca la risurrezione di chiunque crede in Lui». Ecco allora il significato autentico della risurrezione di Cristo, differente da quella di Lazzaro o del figlio della vedova di Nain, «che risuscitarono per morire un’altra volta», come insegna sant’Agostino; tantomeno è una risurrezione «spirituale» ed esistenziale, secondo posizioni teologiche come quelle di Bultmann oggi superate. Al contrario, ha osservato Cantalamessa, «Giovanni dedica due interi capitoli del suo Vangelo alla risurrezione reale e corporale di Gesù, fornendo alcune informazioni dettagliate su di essa. Per lui, dunque, non è solo “la causa di Gesù”, cioè il suo messaggio, che è risorta da morte, ma la sua persona! La risurrezione attuale non sostituisce quella finale del corpo, ma ne è la garanzia. Essa non vanifica e non rende inutile la risurrezione di Cristo dalla tomba, ma anzi si fonda proprio su di essa». Al punto che Gesù «stesso aveva indicato la sua risurrezione come il segno per eccellenza dell’autenticità della sua missione». Di conseguenza il predicatore «smonta» il «pregiudizio presente nei non credenti nei confronti della fede, che non è minore di quello che essi rimproverano ai credenti. Rimproverano infatti di non poter essere obbiettivi, dal momento che la fede impone loro, in partenza, la conclusione cui devono giungere, senza accorgersi che altrettanto avviene» tra loro. «Se si parte dal presupposto che Dio non esiste, che il soprannaturale non esiste e che i miracoli non sono possibili, la conclusione è anch’essa data in partenza, perciò, alla lettera, un pre-giudizio». E «la risurrezione di Cristo costituisce il caso più esemplare di ciò», dato che «nessun evento dell’antichità è suffragato da tante testimonianze di prima mano come questo» alcune riconducibili «a personalità del calibro intellettuale di Saulo di Tarso, che aveva in precedenza combattuto tale credenza». Infatti l’Apostolo «fornisce un elenco dettagliato di testimoni, alcuni dei quali ancora in vita, che avrebbero potuto, perciò, facilmente smentirlo».

Di conseguenza «la risurrezione è la rinascita della speranza», parola che «stranamente è assente nella predicazione di Gesù. I Vangeli riportano molti suoi detti sulla fede e sulla carità, ma nessuno sulla speranza — ha chiarito il porporato —, anche se tutta la sua predicazione proclama che esiste una risurrezione dai morti e una vita eterna. Al contrario, dopo Pasqua, vediamo esplodere letteralmente l’idea e il sentimento della speranza nella predicazione degli Apostoli. Dio stesso viene definito “il Dio della speranza”. La spiegazione dell’assenza di detti sulla speranza nel Vangelo è semplice: Cristo doveva prima morire e risorgere. Risorgendo, ha aperto la fonte della speranza; ha inaugurato l’oggetto stesso della speranza che è una vita con Dio oltre la morte», ha concluso.
(fonte: L'Osservatore 15 marzo 2024)

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Papa Francesco «Quando doniamo e perdoniamo, in noi risplende la gloria di Dio. » Angelus del 17 marzo 2024 (Testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 17 marzo 2024



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, quinta Domenica di Quaresima, mentre ci avviciniamo alla Settimana Santa, Gesù nel Vangelo (cfr Gv 12,20-33) ci dice una cosa importante: che sulla Croce vedremo la gloria sua e del Padre (cfr vv. 23.28).

Ma com’è possibile che la gloria di Dio si manifesti proprio lì, sulla Croce? Verrebbe da pensare che ciò avvenga nella Risurrezione, non sulla Croce, che è una sconfitta, un fallimento! Invece oggi Gesù, parlando della sua Passione, dice: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (v. 23). Cosa vuole dirci?

Vuole dirci che la gloria, per Dio, non corrisponde al successo umano, alla fama o alla popolarità; la gloria, per Dio, non ha nulla di autoreferenziale, non è una manifestazione grandiosa di potenza cui seguono gli applausi del pubblico. Per Dio la gloria è amare fino a dare la vita. Glorificarsi, per Lui, vuol dire donarsi, rendersi accessibile, offrire il suo amore. E questo è avvenuto in modo culminante sulla Croce, proprio lì, dove Gesù ha dispiegato al massimo l’amore di Dio, rivelandone pienamente il volto di misericordia, donandoci la vita e perdonando i suoi crocifissori.

Fratelli e sorelle, dalla Croce, “cattedra di Dio”, il Signore ci insegna che la gloria vera, quella che non tramonta mai e rende felici, è fatta di dono e perdono. Dono e perdono sono l’essenza della gloria di Dio. E sono per noi la via della vita. Dono e perdono: criteri molto diversi da ciò che vediamo attorno a noi, e anche in noi, quando pensiamo alla gloria come a qualcosa da ricevere più che da dare; come qualcosa da possedere anziché da offrire. No, la gloria mondana passa e non lascia la gioia nel cuore; nemmeno porta al bene di tutti, ma alla divisione, alla discordia, all’invidia.

E allora possiamo chiederci: qual è la gloria che desidero per me, per la mia vita, che sogno per il mio futuro? Quella di impressionare gli altri per la mia bravura, per le mie capacità o per le cose che possiedo? Oppure la via del dono e del perdono, quella di Gesù Crocifisso, la via di chi non si stanca di amare, fiducioso che ciò testimonia Dio nel mondo e fa risplendere la bellezza della vita? Quale gloria voglio per me? Ricordiamo infatti che, quando doniamo e perdoniamo, in noi risplende la gloria di Dio. Proprio lì: quando doniamo e perdoniamo.

La Vergine Maria, che ha seguito con fede Gesù nell’ora della Passione, ci aiuti ad essere riflessi viventi dell’amore di Gesù.


Dopo l’Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Ho appreso con sollievo che ad Haiti sono stati liberati un’insegnante e quattro dei sei religiosi dell’Istituto Frères du Sacré-Cœur rapiti lo scorso 23 febbraio. Chiedo che siano liberati al più presto gli altri due religiosi e tutte le persone ancora sotto sequestro in quell’amato Paese provato da tanta violenza. Invito tutti gli attori politici e sociali ad abbandonare ogni interesse particolare e a impegnarsi in spirito solidale nella ricerca del bene comune, sostenendo una transizione serena verso un Paese che, con l’aiuto della Comunità internazionale, sia dotato di solide istituzioni capaci di riportare l’ordine e la tranquillità tra i suoi cittadini.

Continuiamo a pregare per le popolazioni martoriate dalla guerra, in Ucraina, in Palestina e in Israele, in Sudan. E non dimentichiamo la Siria, un Paese che soffre tanto per la guerra, da tempo.

Saluto tutti voi che siete venuti da Roma, dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare, saluto gli studenti spagnoli della rete di residenze universitarie “Camplus”, i gruppi parrocchiali di Madrid, Pescara, Chieti, Locorotondo e della parrocchia di San Giovanni Leonardi in Roma. Saluto la Cooperativa Sociale San Giuseppe di Como, i bambini di Perugia, i giovani di Bologna in cammino verso la Professione di Fede, e i ragazzi della Cresima di Pavia, Iolo di Prato e Cavaion Veronese.

Accolgo con piacere i partecipanti alla Maratona di Roma, tradizionale festa dello sport e della fraternità. Anche quest’anno, per iniziativa di Athletica Vaticana, numerosi atleti sono coinvolti nelle “staffette della solidarietà”, diventando testimoni di condivisione.

E a tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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domenica 17 marzo 2024

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli



V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

17 marzo 2024 

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, la Croce di Gesù è davvero la ragione della nostra gioia. Il suo essere innalzato sul legno della Croce costituisce la piena rivelazione di un amore fedele, che non arretra di fronte ad una violenza assurda ed ingiustificata. Contemplando la potenza di quest’amore grande e gratuito, innalziamo con fiducia al Signore le nostre preghiere ed insieme diciamo:

R/   Attiraci a Te, Signore

  

Lettore

- Signore Gesù, attira verso di Te la tua Chiesa. Crea in essa un cuore nuovo ed uno spirito nuovo, capaci di accogliere la tua Parola e di vivere in obbedienza ad essa. Configurala a Te, perché l’umanità smarrita di oggi possa contemplare in essa il tuo volto di misericordia e di pace. Preghiamo.

- Sii vicino, Signore Gesù, a tutte le comunità cristiane, che sono costrette a subire attacchi di vario genere, come incendi, rapimenti, bombe lanciate nelle chiese durante la celebrazione della Messa. Sono comunità presenti in Africa, in Pakistan, in Iraq o in Indonesia, perseguitate dai gruppi dell’estremismo islamico. Dona a queste comunità la grazia della perseveranza e la forza di offrire il tuo perdono. Preghiamo.

- Abbracciando la croce, Tu o Signore, hai voluto prendere su di Te tutta la malvagità e la disumanità, di cui è capace l’umanità. Ricordati di tutte quelle persone e di quelle popolazioni, che sono costrette a prolungare nel proprio corpo la tua indicibile sofferenza. Fa’ che tanto dolore non sia inutile, ma che, unito alla tua passione, possa far germinare nel cuore dell’umanità un desiderio di vita e di fraternità. Preghiamo.

- Ricordati, Signore Gesù, di quanti sono impegnati a promuovere il grande sogno della pace non solo tra le persone, ma, soprattutto, tra gli Stati nazionali. Sostieni i movimenti e gruppi che si ritrovano ad operare all’interno di regimi autoritari, mettendo a rischio la propria incolumità. Fa’ che la voce di papa Francesco trovi maggiore accoglienza nei cuori di quei politici, che si dichiarano cristiani, ma che nella loro azione politica ubbidiscono, spesso, ad altre logiche lontane dal Vangelo. Preghiamo.

- Davanti al tuo Volto, Gesù, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo anche di coloro che muoiono perché non hanno la possibilità di curarsi, come dei cristiani vittime della persecuzione dei regimi dittatoriali. Fa’ che tutti possano contemplare il tuo Volto. Preghiamo.


Per chi presiede

Signore Gesù, ascolta le preghiere che ti rivolgiamo in questa Pasqua ormai vicina. Fa’ che viviamo nella prospettiva evangelica del dono sovrabbondante e senza misura. Te lo chiediamo perché sei nostro Fratello e Signore, vivente nei secoli dei secoli. AMEN.



"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 18 - 2023/2024 anno B

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B 

Vangelo:

Gv 12,20-33


Gesù è giunto al termine del suo ministero pubblico e si avvicina la sua passione. E' il suo kairòs, l'ora decisiva, quella per la quale è venuto nel mondo. A coloro che desiderano vederlo (figura e anticipo di quanti desiderano diventare suoi discepoli), Gesù risponde che potranno contemplare la sua gloria solo quando lo vedranno innalzato sul legno della croce (cfr. Gv 12,13-15). «La croce, che visivamente è un innalzamento, in realtà è l'abbassamento, la nuda ostensione dell'obbrobrio» (cit.). La croce di Gesù è la piena e totale manifestazione dell'abissale Gloria di Dio, il suo infinito amore per tutti gli uomini. Infatti, la caratteristica più alta dell'amore è l'umiltà, l'abbassamento; guardando a Gesù elevato sulla croce, tutti possiamo contemplare il Mistero di Dio che il Lui si rivela; proprio sull'infame patibolo Gesù abbatte ogni muro di separazione, strappa definitivamente il velo che separa la Santità di Dio dalla miseria dell'uomo, come accade nel Tempio nell'istante stesso della sua morte (Mt 27,51). Il Signore ha eliminato in se stesso l'inimicizia che c'era fra gli uomini facendo la pace: pace con coloro che sono vicini e pace con coloro che sono lontani, con quelli che credono in Lui come con quelli che non credono (cfr. Ef 2,14-18).


sabato 16 marzo 2024

FECONDA SOLITUDINE - Il Dio di Gesù, il Dio capovolto, scompiglia le nostre immagini ancestrali con un chicco e una croce, l'umile seme e l'estremo abbassamento. - V DOMENICA DI QUARESIMA/B - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

FECONDA SOLITUDINE
 

Il Dio di Gesù, il Dio capovolto, 
scompiglia le nostre immagini ancestrali 
con un chicco e una croce, 
l'umile seme e l'estremo abbassamento.


In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (...) Gv 12,20-33


FECONDA SOLITUDINE
 
Il Dio di Gesù, il Dio capovolto, scompiglia le nostre immagini ancestrali con un chicco e una croce, l'umile seme e l'estremo abbassamento.
 

Gesù è così: un chicco di grano che si consuma per nutrire, una croce che già respira di risurrezione.

“Vogliamo vedere Gesù”. Domanda forte di greci, di giudei, di uomini d'oggi, dell'uomo di sempre. Come rispondere?

Gesù stesso offre le parole e le immagini: chicco di grano, croce, strada. E, sempre, come tela di fondo, la nostra terra, che è il vero cielo di Dio, con i suoi poveri affamati di giustizia, e i figli in ansia di luce.

“Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”. Frase pericolosa come poche, se capita male, e vedo che l’accento dell’espressione non va a posarsi sul finire o sul morire, ma sul molto frutto... L’interesse del vangelo, l’obiettivo della creazione, è la fecondità. Il seme germoglia chiamato dalla spiga futura, muore alla sua forma ma rinasce in quella di germe, e poi tutto evolve verso più vita: la gemma in fiore, il fiore in frutto, il frutto in pane.

Nel ciclo vitale e in quello spirituale “la vita non è tolta ma trasformata”. Se sei generoso di te, se doni tempo, cuore e intelligenza, come un atleta, uno scienziato o un innamorato al tuo scopo, allora la vita non si ferma e non si perde, ma si moltiplica.

Ognuno di noi è chicco di grano nei solchi della storia, chiamato a fecondità. Grano seminato, lontano dal clamore e dal rumore, nella terra buona della mia famiglia e del mio lavoro, in quella amara delle lacrime senza risposta.

Mi porto dentro un seme di vita che contiene molte più energie di quanto non appaia. Ma le possiede quando le dona.

Allora il fragile chicco muore sì, anche di paura, ma la vita gli si trasforma in una forma più evoluta e potente. “Quello che il bruco chiama fine del mondo tutti gli altri chiamano farfalla” (Lao Tze), perché non striscia più ma vola; muore alla vita di prima per vivere in una forma più alta.

Gloria di Dio è solo la fioritura dell’essere (R. Guardini) e la sua fecondità, e quello che le innesca, il detonatore, è il dono di sé. La chiave di volta che regge il mondo, dal seme a Cristo: non la vittoria del più forte ma il dono. Fino in fondo, fino all’estremo, oltre il limite, come mostra la seconda immagine del dittico di Gesù: la croce.

Quando sarò innalzato attirerò tutti a me. Dalla croce sento erompere un’ attrazione universale, una forza di gravità celeste: lì è l'immagine più pura e più alta che Dio dà di se stesso.

Cosa mi attira del Crocifisso? Che cosa mi seduce? La bellezza dell’atto d’amore! Bello è chi ti ama, bellissimo chi ti ama fino all’estremo. Il crocifisso coperto di sangue e sputi non è bello, ma è la figura di una realtà bella: un amore fino a morirne. La realtà imbruttita di quel corpo straziato, è il riflesso più bello della cosa più bella di Dio, la sua follìa d’amore.

Suprema bellezza è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio del Dio infinito si è lasciato contenere nell’infinitamente piccolo, quel poco di legno e di terra che basta per morire.

«A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco). Il Dio di Gesù, un Dio capovolto, scompiglia le nostre immagini ancestrali con un chicco e una croce, l'umile seme e l'estremo abbassamento.

Gesù è così, un chicco di grano che si consuma per nutrire; una croce che già respira di risurrezione.


ALBERTO NEGLIA - Cristo, nostra Pace, abbatte ogni muro e ogni divisione (cf. Ef 2,14) - VIDEO

MERCOLEDÌ DELLA BIBBIA 2024
promossi dalla
FRATERNITÀ CARMELITANA
DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO

I MITI ABITERANNO
LA TERRA (cf. Mt 5,5)
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Sesto  mercoledì - 13 marzo 2024

Cristo, nostra Pace, 
abbatte ogni muro 
e ogni divisione 
(cf. Ef 2,14) 

Alberto Neglia


Premessa
    Quando si parla di pace, oggi, facilmente si fa riferimento ad alleanze strategiche, equilibrio di forze e di armi; si ritiene quindi che la pace sia frutto di alchimie politiche e del buon senso dei “grandi” di questo mondo. Preoccupa che in questa logica, a volte, sono coinvolti anche i credenti, i quali si pongono accanto alle altre forze politiche e sociali e ai poteri di questo mondo, e ritengono di dover usare gli stessi mezzi e la stessa strategia per conseguire la pace. Il loro discorso appare privo di un'ossatura profetica e di quella creatività che scaturisce dalla preghiera come familiarità del credente con il suo Signore che è la Pace. Per recuperare quest'anima profetica, propria del credente, è bene lasciarsi illuminare dalla Parola biblica e soprattutto dal vissuto di Gesù.
...
   La prassi di pace di Gesù ha scandalizzato gli apostoli e continua a scandalizzare anche i credenti di oggi che, come evidenziavo all'inizio, a volte confidano più sulle alleanze con i potenti e sulla potenza delle armi che su Cristo. Ma la profezia evangelica, in ordine alla pace non consente di “scendere in Egitto per cercare aiuto”, né di «confidare nei carri... e nella cavalleria» (Is 31,1). La profezia evangelica ricorda che la Pace è Qualcuno. La pace è il Trafitto, che appare in mezzo a noi e mostra le sue mani e il suo fianco (cf. Gv 20,19.26), dicendo: «La pace sia con voi». 
   Per il cristiano, allora, la pace non e un problema etico, ma prima di tutto un problema di fede: è vedere Lui: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28), accoglierlo dinamicamente nella propria povera carne e, assieme a Lui, farsi carico della violenza del mondo e accettare anche la morte come qualcosa che non ci può separare dal suo amore (cf. Rm 8,35). 
   Come per Cristo, quindi, anche per il cristiano non esiste altra via della pace se non quella della martyria e della follia della croce. E alla luce della croce, discriminazione, violenza, razzismo, equilibrio del terrore, guerra giusta, difesa armata non sono più motivati perché non esiste più necessità storica per giustificarli. La necessita cede i propri motivi di fronte a Cristo che nella Croce dona il Padre al mondo, mettendo gli uomini nel dovere-possibilità di superare la violenza che lacera e divide e di affacciarsi a una storia possibile di armonia nella giustizia, di solidarietà e di pace.
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La Messa è finita di Enzo Bianchi

La Messa è finita
di Enzo Bianchi

(Pubblicato su "La Repubblica" - 11 marzo 2024)



Sono un monaco anziano che diffida dei sondaggi, delle percentuali di fallimento e di successo calcolate troppo superficialmente, ma resto attento a confrontare i dati che pervengono dalle inchieste con le mie esperienze dirette e personali che con attenzione vivo e di conseguenza ripenso. Ormai vivo, soprattutto le situazioni ecclesiali con una certa distanza, quella che si assume a volte per ridere ma a volte anche per piangere. E in questa stagione, nella quale è ritornata con prepotenza la barbarie specie in politica e nella vita della società, certamente mi assale la tristezza per l’inadeguatezza della chiesa, o meglio dei cristiani, la loro incapacità di reagire, di insorgere con una coscienza che dovrebbe essere nutrita dal Vangelo. E invece devo constatare che la crisi attraversa anche la chiesa e si manifesta come diminutio: una chiesa sempre più ridotta alla diaspora e a piccole comunità che devono decidere se essere significative in un mondo di indifferenza, o diventare realtà sfilacciate fino a scomparire, o ancora rimanere come mere manifestazioni tradizionali, folcloristiche, da alcuni chiamata “religione popolare”.

Uno degli obiettivi della recente inchiesta condotta da Demos, di cui Ilvo Diamanti ha dato conto su queste colonne sabato 9 marzo, era quello di mettere a fuoco le passioni degli italiani, cioè quel che agli italiani sta a cuore e ciò che è ancora significativo, importante per loro. Dai dati raccolti si evince che rispetto al 2016, dunque in otto anni, sono avvenuti alcuni mutamenti significativi, tra i quali si registra una forte caduta di interesse per il fenomeno religioso: da 72 a 60 punti su 100. Da annotare che la realtà religiosa è l’unica “passione degli italiani” a perdere quota, mentre risalgono la squadra di calcio e persino il partito politico.

Tutti concordano ormai su questa diminuzione di adesione e partecipazione di uomini e donne alla chiesa, ma l’accelerazione del fenomeno negli ultimi due decenni non può non destare una certa ansia nei credenti e soprattutto suscitare domande che esigono una risposta da parte dei vescovi, dei presbiteri e anche da parte del popolo chiamato “popolo di Dio”.

Resta comunque vero che la chiesa, mediatrice di fatto del Vangelo e della Pasqua di Gesù Cristo, non ha più una capacità di attrazione di ascolto delle sue parole. Solo Papa Francesco ha una voce, ma i vescovi stessi appaiono afoni e nessuno tra loro, almeno in Italia, ha acquisito in questi ultimi due decenni l’autorevolezza di cardinali come Pellegrino, Martini, Ursi, Siri, Pappalardo: una sola voce e le altre spente, o comunque senza performance, inascoltate. Ora il Papa con il suo carisma e la sua profezia raggiunge molti, ma per un’appartenenza ecclesiale ci vuole una parola nella chiesa locale, una soggettività della comunità. 

La chiesa dei movimenti ha perso la sua propulsione e sta per scomparire, ma se non si ritorna a una comunità locale dove si ascolta la Parola e si diventa un solo corpo nell’Eucaristia lo sfilacciamento continuerà. Una chiesa con una “Messa sbiadita”, dice l’autorevole sociologo cattolico Diotallevi, una “Messa che è finita” e una comunità che è tale di nome ma non conosce la sua essenza, che è la fraternità, non può attraversare l’attuale mutamento di portata epocale.

Una chiesa al cui interno si combatte una guerra sui riti della Messa con un’epifania di cattiveria e violenza, con una nebulosa neotridentina che sui social attacca il Papa in modo indecente, e una chiesa che appare incapace di manifestare la differenza cristiana e di annunciare la buona notizia della vittoria di Cristo sulla morte. Questo induce molti a lasciarla perché non trovano più in essa né il lievito del Regno di Dio né il sale della sapienza.

(Fonte: sito dell'autore) 

venerdì 15 marzo 2024

Ramadan, messaggio della Santa Sede: ogni guerra è fratricida, insensata e oscura - Testo integrale in italiano, inglese, francese e arabo

Ramadan, messaggio della Santa Sede:
ogni guerra è fratricida, insensata e oscura

Uniamoci per spegnere il fuoco dell’odio, della violenza e accendiamo la dolce candela della pace: è l'appello del Dicastero per il Dialogo interreligioso ai musulmani nel mese che si conclude con la celebrazione di 'Id al-Firt. L'invito, rivolto anche ai cristiani, è a formare le coscienze al rispetto della sacralità della vita di ogni persona

Preghiera nel mese del Ramadan (AFP or licensors)

Il numero crescente di conflitti nel mondo ha indotto inevitabilmente il Dicastero per il Dialogo Interreligioso a considerare ancora il tema dell'impegno per la pace come fulcro del messaggio per il mese di Ramadan e 'Id Al-Fitr indirizzato ai musulmani.

Aumento allarmante dei conflitti

È un Messaggio di "vicinanza e amicizia" quello diffuso oggi, 15 marzo, che contiene un appello a cristiani e musulmani: estinguere il fuoco della guerra e accendere la candela della pace". Il presupposto da cui muove il testo è la constatazione dell'aumento "davvero allarmante" dei conflitti: dai combattimenti militari agli scontri armati di varia intensità che coinvolgono Stati, organizzazioni criminali, bande armate e civili.

C'è chi si rallegra del commercio immorale di armi

Il testo si sofferma sulle cause dei conflitti individuando nella continua produzione e nel commercio di armi il movente principale, a cui si affianca il "perenne desiderio umano di dominio, le ambizioni geopolitiche e gli interessi economici". C'è chi soffre in modo, si osserva, e c'è chi si rallegra "cinicamente del grande profitto economico derivante da questo commercio immorale", si scandisce citando quanto Papa Francesco ha affermato a questo riguardo: è "come intingere un boccone di pane nel sangue del nostro fratello".

In guerra perdono tutti

Il prefetto cardinale Ayuso Guixot e il segretario monsignor Indunil Kankanamalage, che firmano il messaggio, sottolineano d'altro canto che "il desiderio di pace e di sicurezza è profondamente radicato nell’animo di ogni persona di buona volontà". Osservano che "la distruzione delle infrastrutture e delle proprietà rende la vita irrimediabilmente difficile, se non impossibile". Mettono in risalto la condizione preoccupante degli sfollati e dei rifugiati a causa delle guerre e ribadiscono inequivocabilmente: "Ogni guerra è fratricida, inutile, insensata e oscura. In guerra perdono tutti".

Formare le coscienze al rispetto della vita

Nel messaggio per il Ramadan viene ricordato che tutte le religioni considerano la vita umana sacra e quindi degna di rispetto e protezione. Inoltre, viene accolto con sollievo il fatto che gli Stati che consentono e praticano la pena capitale diventano ogni anno sempre meno. "Un risvegliato senso del rispetto per questa fondamentale dignità del dono della vita contribuirà alla convinzione che la guerra deve essere rifiutata e la pace custodita". Da qui l'appello alla coscienza che deve essere formata "al rispetto del valore assoluto della vita di ogni persona e del suo diritto all’integrità fisica, alla sicurezza e ad una vita dignitosa". Per questa strada si contribuirà alla "condanna e al rifiuto della guerra, di ogni guerra e di tutte le guerre".

Uniti per spegnere il fuoco dell'odio

Il messaggio si conclude con l'esortazione a guardare all’Onnipotente come al Dio della pace, fonte della pace, considerando allo stesso modo che la pace è il frutto degli sforzi umani. Bisogna edificarla e custodirla. "Uniamoci per spegnere il fuoco dell’odio, della violenza e della guerra, e accendiamo invece la dolce candela della pace, attingendo alle risorse per la pace che sono presenti nelle nostre ricche tradizioni umane e religiose", è l'appello accorato alle sorelle e ai fratelli musulmani. Che il digiuno e le altre pie pratiche durante il Ramadan e la celebrazione di ‘Id al-Fitr che lo conclude, portino "abbondanti frutti di pace, speranza e gioia".
(fonte: Vatican News, articolo di Antonella Palermo 15/03/2024)

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Vedi il testo integrale del Messaggio del Dicastero per il Dialogo Interreligioso ai Musulmani per il Mese del Ramadan e ‘Id al-Fitr 1445 H. / 2024 A.D., 15.03.2024

Il bianco della bandiera papale invita alla verità di Raniero La Valle

Il bianco della bandiera papale
invita alla verità 
di Raniero La Valle





Se il Papa, rispondendo alla Televisione svizzera, avesse parlato solo del negoziato, come fa incessantemente da quando è scoppiata la guerra, presentandolo come un dovere morale, oltre che politico, nessuno lo sarebbe stato a sentire, perché ormai le parole di buon senso non si possono più nemmeno pronunciare in questo mondo (occidentale) a una sola dimensione (la guerra). Invece ha preso in carico la metafora offertagli dall’intervistatore e ha parlato di bandiera bianca, e tutti si sono indignati, soprattutto quelli, come Biden e i nostri giornali, che alla guerra ci mandano gli altri. Ma al bianco era dedicata tutta l’intervista, come simbolo della purezza, della mitezza e della bontà, ed è venuta fuori perfino la ragione, a tutti ignota, per la quale il Papa è vestito di bianco, che non è quella di mostrarlo senza peccato (perché io pecco come gli altri, ha spiegato Francesco, uomo e non vicario di Dio, che di Vicari non ne ha sulla terra, o meglio ne ha otto miliardi, quanti siamo nel mondo) ma è semplicemente quella che Pio V era un domenicano, e perciò aveva l’abito bianco, e da allora è invalsa la tradizione di vestire di bianco anche i suoi successori (lo fa per la prima volta il cerimoniere, prima di annunziare che habemus papam). Così, grazie alla simbologia del bianco, che non vuol dire affatto la resa, ma anzi il coraggio di restare umani quando si associa alla bandiera, tutti hanno dovuto raccogliere l’unica voce nel mondo, che mentre i più inneggiano all’impossibile e immancabile vittoria delle armate di Kiev, sempre più zeppe di armi e sempre più deprivate di uomini (e donne), dice che il re è nudo, quando il re (e ahimè, quale re!) è nudo davvero.

E perfino il Nunzio è stato convocato a Kiev, come l’ultimo degli ambasciatori, per fargli sapere che l’unica bandiera dell’Ucraina è giallo-blu, anche se purtroppo, oggi e chissà per quanto tempo voluto dai suoi “governanti”, è a mezz’asta. La cosa singolare è poi che mentre Biden si è permesso di dire a Netanyahu che sta facendo la rovina del suo popolo (e anzi di tutti gli ebrei sparsi nel mondo), e nessuno gli ha dato sulla voce, anche perché è sacrosantemente vero, tutti se la sono presa con papa Francesco che laicamente ha fatto anche un discorso di sapienza e convenienza politica. Messo tutto insieme, quello che ne viene fuori è che nella demenza pandemica, che sembra essere la vera seconda epidemia di questo inizio secolo, i poteri che ci governano stanno tornando al 1939, quando la Germania, cominciando dalla Polonia, voleva arrivare a Mosca, e diede avvio alla guerra mondiale, che allora era la seconda. Come la Germania di allora, la Nato si spinge verso Est, e come si legge sul Fatto il ministro degli Esteri polacco ha rivelato che “il personale militare della Nato è già presente in Ucraina” (europei compresi) e, siccome il mondo si è allargato, mentre si ammassano fascine per la guerra contro la Russia, il progetto è, dopo la Russia, di eliminare la Cina. Ma oggi in più c’è l’atomica, i missili, i droni, e anche la carne da cannone è aumentata, dato che sulla Terra siamo, appunto, in otto miliardi. Allora gli Stati Uniti non volevano intervenire, c’è voluta Pearl Harbour, mentre ora sono già qui, e un po’ di fascismo viene avanti anche da loro, e da noi c’è una cultura fascista al potere. Chi esplicitamente si richiama al ’39 è Paolo Mieli, che rimpiange come a Roma ci sia papa Francesco, non uno come Pio XII (pensato come cappellano dell’Occidente): ma dalle carte segrete della Santa Sede pubblicate dopo la guerra risulta che Domenico Tardini, sostituto Segretario di Stato, voleva e scriveva che la guerra doveva finire non solo con la sconfitta della Germania nazista, ma anche con la liquidazione dell’Unione Sovietica e del suo comunismo. In questa situazione chiedere di avere il coraggio di negoziare, “per non portare il Paese al suicidio” (e questo vale anche per Hamas con i palestinesi), non è una bestemmia, è un invito alla salvezza, un barlume di verità.

(Fonte: “Il Fatto Quotidiano” del 13 marzo 2024)




giovedì 14 marzo 2024

Pasquale Pugliese: Disperdere il potere come antidoto alle guerre

Pasquale Pugliese
Disperdere il potere come antidoto alle guerre

Nei mondi nuovi che in questo momento fatichiamo e immaginare e desiderare non c’è solo il rifiuto della guerra ma anche della sua preparazione. Non ci sono strategie dal basso per prendere il Palazzo d’Inverno, ma la forza dei piccoli gruppi tra loro legati. Non ci sono neanche eserciti di difesa, il cui fine ultimo resta sempre l’esercizio della violenza. Cade, infine, la separazione tra la nonviolenza come mezzo e la nonviolenza come fine, del resto non ci sono poteri da conquistare o difendere. In quei mondi nuovi che fatichiamo e immaginare e desiderare il “potere su qualcuno” viene messo in discussione, per dirla con Capitini, dall’omnicrazia, “il potere di tutti”, cioè dalla capacità di fare dei cittadini che smettono di delegare e scelgono di creare, qui e ora, comunità diverse, per quanto inevitabilmente fragili. Una rilettura del Poteri di tutti di Aldo Capitini, ancora drammaticamente attuale.

Foto di Levi Meir Clancy su Unsplash

Aldo Capitini – scrive Norberto Bobbio nell’Introduzione a Il potere di tutti evocando l’XI Tesi di Marx su Feuerbach – “legge e discute i filosofi, ma mira a trasformare il mondo non a interpretarlo”: ne identifica e denuncia le insufficienze e ne propone una visione alternativa, non da utopista, quanto piuttosto da “profeta”. L’utopista e il profeta, due figure che gettano lo sguardo sul futuro diverso possibile, ma con approcci radicalmente diversi: “Il profeta, in quanto volto alla realtà da liberare, è proteso verso il futuro – scrive ancora Bobbio – Anche l’utopista guarda al futuro. Ma il profeta non è l’utopista. La differenza sta in ciò: mentre l’utopista disegna una stupenda struttura di società ideale ma ne rinvia l’attuazione a tempi migliori, il profeta comincia subito, qui ed ora”. Aldo Capitini, in questo senso, è stato un infaticabile profeta.

Il Potere di tutti è il libro postumo di Aldo Capitini (pubblicato per i tipi de La Nuova Italia nel 1969) contiene un saggio incompiuto dal titolo significativo di Omnicrazia – neologismo capitiniano composto dalla parola latina omnis (tutti) e da quella greca kratos (potere) – gli articoli usciti sul periodico Il Potere è di tutti tra il 1964 e il 1968 e le Lettere di religione, lettere circolari diffuse tra gli “amici della nonviolenza” dal 1951 e il 1968. Non si tratta quindi di un lavoro sistematico, ma di un insieme di scritti che richiamano e riepilogano i temi affrontati nell’itinerario intellettuale del filosofo perugino (per la ricostruzione del quale rimando a Pasquale Pugliese, Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini, GoWare, 2018), intersecati in riferimento all’analisi del rapporto tra potere e violenza. Non una ricerca sociologica, ma l’indicazione del percorso – teorico e pratico, religioso e politico, individuale e collettivo – per l’apertura del potere nell’omnicrazia e il superamento della violenza con la nonviolenza.

I libri più recenti di Capitini prima di questo erano stati La compresenza dei morti e dei viventi (1966), Le tecniche della nonviolenza (1967), Educazione aperta (1968): i temi affrontati in questi libri precedenti – come nei coevi articoli pubblicati su Azione nonviolenta, la rivista del Movimento Nonviolento, fondata anch’essa da Capitini nel 1964 – si ritrovano intrecciati nell’elaborazione capitiniana sul potere di tutti.

Si tratta di una prospettiva che sembrava poter trovare un inveramento negli anni della “contestazione” delle strutture di potere e delle aperture dell’epoca – dal disgelo tra Est ed Ovest al Concilio Vaticano II, dalle lotte per i diritti civili con Martin Luther King negli Usa a quelle per l’obiezione di coscienza in Italia – che quegli scritti anticipavano e accompagnavano, ma che ha una forza profetica rispetto al nostro presente (“una profezia per il presente”, la definisce Capitini), nel quale le democrazie anziché un’evoluzione partecipativa stanno subendo una involuzione autocratica e la violenza della guerra, oltre che a dilagare perfino in Europa, è tornata a farsi anche minaccia nucleare. E le due cose sono collegate: la preparazione della guerra cementa poteri senza controllo che rispondono solo a chi dalle guerre trae beneficio. Per questo “il rifiuto della guerra è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso” – è la tesi di Capitini – anche per la declinazione di un potere differente. Tracciamone dunque – tra e con le sue parole – il sentiero che lo dimostra.

La dimensione dei tutti

Partiamo dalla dimensione dei tutti evocata dall’omnicazia: essa non rappresenta solo un elemento quantitativo, ma hegelianamente di trasformazione qualitativa. “Se si raggiunge l’orizzonte di tutti, c’è un cambiamento di qualità e non semplicemente di quantità”, scrive Capitini. Questo salto qualitativo avviene attraverso la capacità di dare il tu a tutti, ossia con il realizzarsi per ciascuno di un triplice riconoscimento nell’Altro: della responsabilità personale nei suoi confronti, chiunque egli sia (nella quale sembrano risuonare echi levinasiani dell’incontro con il volto dell’altro); del contributo di ciascuno alla realizzazione dei valori, perché tutti vi mettono intimamente qualcosa, e, contemporaneamente, del nesso profondo che col-lega tutti e supera, nella visione capitiniana, anche il fatto della morte. Questo riconoscimento profondo di tutti è il nesso intimo che definisce la compresenza dei morti e dei viventi e fonda la realtà di tutti: si tratta della dimensione religiosa, che attraversa tutta l’opera di Capitini e che non possiamo approfondire qui se non per dire che ha un valore non metafisico, ma etico ed etimologico. Ossia rimanda all’esperienza religiosa come legame che unisce, nel profondo, tutti, i vivi e i morti.

Riassumendo quanto scritto fin qui, l’aprirsi di ciascuno alla dimensione dei tutti ne modifica la modalità di stare al mondo, la postura etica, non solo sul piano intimo e personale ma sul piano politico e sociale, sia nei mezzi che nei fini. Aprendo in questo modo la prospettiva della nonviolenza, come spiega Aldo Capitini:

“Abbiamo visto concretarsi una posizione nuova, che è dell’interesse sommo, della passione per la realtà di tutti, dell’apertura alla compresenza: se questa passione diventa centrale nel proprio animo, avviene una rivoluzione interna o conversione o trasformazione della coscienza e della stessa psiche, dei sentimenti e abitudini dell’individuo. Nel suo agire in mezzo agli altri, egli ha un modo per manifestare questa trasformazione interna che sta avvenendo in lui, e questo modo è l’interesse aperto e visibile per la nonviolenza, nella complessità progressiva delle sue realizzazioni, delle sue acquisizioni, delle sue conquiste”.

La guerra e i limiti della democrazia

L’entrare in scena della nonviolenza rimette in discussione tutto, anche la democrazia, il potere della maggioranza, che, vista in riferimento ai poteri assoluti del passato, è un avanzamento, ma vista in riferimento al potere di tutti manifesta evidenti limiti e insufficienze. Che è lo stesso Capitini ad elencare, facendone una critica tanto lucida quanto serrata:

“La democrazia attuale attribuisce alla maggioranza un potere che qualche volta è eccessivo rispetto ai diritti delle minoranze; fa guerre di Stato contro Stato; conferisce alle polizie il potere di torturare (come avviene in tutti Paesi) e molte volte un soverchio intervento nell’ordine pubblico; non è sufficientemente aperta a ciò che potranno dare o vorranno essere i giovanissimi e i posteri; preferisce strumenti coercitivi e repressivi a strumenti persuasivi ed educativi; si lascia sopraffare dalle burocrazie trascurando il servizio al pubblico anonimo; concentra il potere preferendo l’efficienza al controllo, e finisce con non considerare sufficientemente i mezzi e le loro conseguenze pur di raggiungere un fine”.

Nei quasi sessant'anni che ci separano da questa analisi chirurgica dei limiti delle democrazie rappresentative, essi si sono tutti dilatati e approfonditi, con pericolose derive autocratiche a tutte le latitudini. Tra i limiti della democrazia elencati da Capitini, di gran lunga il più grave è quello della guerra e della sua preparazione. Anche nell’analisi degli “effetti collaterali” della guerra. Capitini svolge un elenco che dimostra come, in particolare dopo Hiroshima e Nagasaki, essa sia radicalmente incompatibile con un potere aperto alla partecipazione di tutti.

“Si sa che cosa significa, oggi specialmente la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage degli innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica ed aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”

L’impegno attivo per tendere al potere di tutti, dunque, non può che avere come punto di partenza la lotta per impedire la guerra, fondamento e alimento di ogni altra oppressione.

“L’omnicrazia deve prendere corpo anche in questo modo” – argomenta il fondatore del Movimento Nonviolento – “Nella capacità di impedire dal basso le oppressioni e gli sfruttamenti; ma questa capacità delle moltitudini ha il suo collaudo nel rifiuto della guerra, intimando un altro corso alla storia del mondo”. Il rifiuto attivo della guerra è dunque il punto essenziale di svolta. Tuttavia, perché il rifiuto della guerra – che la Costituzione italiana rinforza con il concetto di ripudio – diventi effettivo e non rimanga mera aspirazione utopica, è necessario che la resistenza alla guerra si dia un’organizzazione. Quell’organizzazione che è invece mancata nella fase di avvento del fascismo: i Gobetti, i Matteotti, i Gramsci vedevano chiaro e denunciavano il pericolo, scrive Capitini, ma non poterono organizzare un’ampia “non collaborazione dal basso” per fermarne l’ascesa, perché “non avevano intorno quella preparazione e quella maturità che li assecondasse”.

Ed oggi? Oggi che i poteri costituiti preparano ancora la guerra, anche nucleare, saremmo preparati a contrastarla?

“Bisogna aver pronta una vastissima rete di organi dal basso, di consulte locali, di comitati scuola-famiglia, di centri sociali più che per ogni parrocchia, di commissioni interne, di consigli scolastici e comitati universitari, di centri di addestramento alle tecniche della nonviolenza, (…), di sviluppo di assemblee per addestrare i giovani, perché non si sentano isolati o giocati dall’alto”.

Per essere pronti, serve un ampio lavoro culturale, politico e organizzativo – al quale peraltro Capitini si dedicò intensamente durante tutta la vita – che oggi è del tutto insufficiente rispetto ad un pericolo sempre più incombente.

Le due fasi del potere

Si tratta, secondo Capitini, di superare sia i compromessi del riformismo – diventato oggi parola quasi impronunciabile – col potere esistente, sia la violenza del massimalismo rivoluzionario – che in Italia nel due decenni successivi a Capitini ha visto la tragica parabola del terrorismo – per svolgere la “rivoluzione permanente nonviolenta dal basso”. Non la presa del Palazzo d’Inverno, ma un processo di trasformazione continua che si esercita attraverso quella che Capitini definisce la “teoria delle due fasi del potere”, in base alla quale non si tratta di conquistare un potere che rimane identico a se stesso, ma di trasformarne radicalmente le fondamenta, le manifestazioni e le articolazioni.

“La teoria delle due fasi del potere” – argomenta Capitini – “fa posto ad una fase di potere senza governo”, rispetto al quale il tema cruciale è quello di “impostare un’adeguata articolazione della prima fase, quella del potere senza governo, premessa e garanzia che l’eventuale seconda fase” – quella del potere con il governo – “sia un potere nuovo ‘conseguente’ alla prima fase, di allargamento delle aperture, di addestramento alle tecniche della nonviolenza, di miglioramento della zona in cui si vive, di lavoro educativo, di impostazione di continue solidarietà con altri nella rivoluzione permanente per la democrazia diretta, connessa intimamente con la nonviolenza”.

Un processo infinito di apertura dei loci del potere e di manutenzione continua di queste aperture: “il potere dei senza potere”, l’avrebbe definito successivamente Václav Havel, senza probabilmente aver letto Capitini.

È necessario precisare, tuttavia, che per “democrazia diretta” Capitini non intende il superamento tout-court della democrazia rappresentativa, ma la sua continua integrazione con aggiunte provenienti dal basso: da un lato attraverso lo strumento dell’assemblea, da svolgersi a tutti i livelli, sul modello dell’esperienza originaria dei Cos, i Centri di orientamento sociale, che organizzò a partire da Perugia subito dopo la Liberazione, come luoghi di confronto e formazione degli adulti, aperti a tutti, dove il motto era “ascoltare e parlare”, dopo un ventennio in cui uno solo poteva parlare e tutti gli altri dovevano ascoltare. Dall’altra parte attraverso le tecniche della nonviolenza: la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, la resistenza e la difesa civile. Mezzi nonviolenti, capaci di rendere nonviolento anche il fine, ossia il potere.

In questa direzione ciò che va immediatamente superato – senza dubbio e senza appello – è l’apparato dell’esercizio della violenza organizzata, ossia l’esercito, che è anche il fondamento ultimo del potere inteso come dominio: “L’esercito si pone come sostegno dell’imperio o potere assoluto centrale, e perciò va rifiutato alla radice, per un rinnovamento profondo”. Un potere di tipo nuovo necessita e si fonda su una forza differente, la forza della nonviolenza, sia rispetto all’interno di ciascun Paese che sul piano delle relazioni internazionali: “per una posizione di nonviolenza è da generalizzare l’insegnamento delle tecniche della nonviolenza, addestrando tutti a saperle usare e fornendo loro i mezzi necessari: tali tecniche possono valere per le trasformazioni, o rivoluzioni, interne e per l’eventuale lotta contro invasori”. È la teorizzazione della difesa civile, non armata e nonviolenta7 che sostituisce la difesa militare. “Perciò” – ribadisce, senza mezzi termini, Capitini – “il rifiuto assoluto della guerra e della guerriglia, e della tortura e del terrorismo (che accompagnano la guerra e la guerriglia), è il punto di partenza, la svolta, la condizione assoluta di una nuova impostazione del potere”. È da quel rifiuto radicale che ha inizio l’omnicrazia.

Il tema del rifiuto della guerra e degli apparati che la preparano, la legittimano e la rendono possibile, come elemento imprescindibile per la trasformazione del potere, non è un’acquisizione recente dell’evoluzione del pensiero capitiniano, ma una costante che aveva ribadito più volte anche sul periodico il Potere è di tutti, a segnalare il nesso inscindibile tra le guerre e i poteri che non rispondono ai cittadini, indipendentemente dalle forme di governo.

“Noi siamo convinti che le popolazioni si fidano troppo dei governi – scriveva a commento della Marcia della Pace di Perugia ad Assisi del 1961 – La guerra è voluta, preparata e fatta scoppiare da pochi, ma questi pochi hanno in mano le leve del comando. Se c’è chi preferisce lasciarli fare, e non pensarci, divertirsi e tirare a campare, noi dobbiamo pensare agli ignari, ai piccoli, agli innocenti, al destino della civiltà, dell’educazione e della progressiva liberazione di tutti. Noi dobbiamo dire No alla guerra ed essere duri come pietre; oggi i governi, con la decisione di fare le guerre e di usare le armi atomiche e chimiche, sono infinitamente più dannosi di qualsiasi disordine della popolazione, perché un’ora di guerra atomica può distruggere la vita di tutto un popolo”.

Il federalismo universale di centri nonviolenti

Per queste ragioni la nonviolenza è mezzo e fine allo stesso tempo, come spiegava già in una lettera di religione del 1951, in quanto influisce sia sul fondamento che sul metodo, “perché stacca dal metodo della conquista e difesa violenta del potere, anche mediante tortura, stragi, distruzione del nemico e illibertà; e opera mediante non-collaborazione ma sempre con amore e libertà”. È un metodo totalmente nuovo di pensare e agire l’impegno politico: “questo metodo” – scrive Capitini – “guarisce la politica dalla sua fretta e impazienza, per cui essa crede di poter usare i mezzi della violenza e della frode; e così usando questi mezzi, non vede più il fine”.

Sul piano internazionale la nonviolenza si manifesta nell’impegno per il superamento dei “blocchi” contrapposti attraverso l’unione dei “centri nonviolenti” dell’Oriente e dell’Occidente, in “un federalismo universale di centri nonviolenti, collegandoli in senso orizzontale indipendentemente dal potere” verticalmente costituito, sostituendo l’antagonismo di un blocco politico contro l’altro, con quello dei centri nonviolenti – “tutte le forze per la pace, di Oriente e di Occidente” – per superare i rispettivi blocchi. È la sostituzione di una dimensione verticale del potere con una dimensione orizzontale che travalica i confini dei poteri militari e unisce in un potere solidale internazionale dal basso: una “internazionale della nonviolenza”. Anch’essa già teorizzata più volte su Azione nonviolenta, anche in riferimento all’organizzazione della War Resister’s International, della quale il Movimento Nonviolento è sezione italiana.

Una visione “profetica” rispetto a quanto accaduto nell’89, quando avvenne il collegamento dei movimenti per la pace e il disarmo nell’Europa dell’Ovest, i movimenti per la democrazia nell’Europa dell’Est e la figura di Michail Gorbacev al Cremlino (il quale già nel 1986 aveva sottoscritto, con Rajiv Gandhi, la Dichiarazione di Nuova Delhi sulla nonviolenza), che portò all’abbattimento del muro di Berlino, alla fine del Patto di Varsavia e ad un – seppur breve – periodo di distensione internazionale. Così come non è lontana dalla visione capitiniana la solidarietà tra gli obiettori di coscienza dei fronti di guerra contrapposti, per esempio Russia e Ucraina, o dei costruttori di pace nel “gruppi misti”, per esempio tra israeliani e palestinesi, come le organizzazioni dei Parent’s Circle e dei Combatants for peace.

Se questi sono i compiti, locali e globali, la domanda che ne scaturisce è se non siamo troppo pochi e ininfluenti per svolgerli. Aldo Capitini, che è stato sempre portatore di grandi visioni in gruppi minoritari, scriveva nell’ultima lettera di religione – quasi un testamento, due settimane prima di morire – che ciò che conta davvero è la forza preziosa dei piccoli gruppi.

“Oggi i grandi Stati non escludono la guerra, anzi la minacciano anche, e hanno forze enormi per la sua attuazione – scriveva il 6 ottobre del 1968, ma è come se parlasse a noi qui ed ora – anzi sono carichi di tutti i difetti che abbiamo detto, di tutte le varie specie di violenza (oppressione e autoritarismo burocratico, manipolazione delle informazioni e impedimento alla libertà scolastica, disuguaglianza economica, spinta alla guerra ed educazione violenta ecc.)”.

Ma di fronte ad essi i piccoli gruppi non sono inermi, ma “hanno una forza preziosa, perché possono fondarsi su posizioni strenue, far emergere orientamenti chiari e ostinati, anche se saran detti utopistici: ma l’utopia di oggi può essere la realtà di domani”. Nella misura in cui ciascuno dei persuasi s’impegna per la sua realizzazione, come singolo e come centro. Con la consapevolezza che ciascuno non è mai isolato ma è sempre collegato agli altri, a tutti, attraverso la forza della compresenza – e qui torna la dimensione religiosa fondamentale per Capitini, come per Mohandas K. Gandhi che fu uno sei suoi costanti punti di riferimento – e della sua manifestazione pratica, la nonviolenza.

Con la scelta della nonviolenza ciascuno “ha dato segno di voler stabilire con altri esseri nel cerchio più largo possibile, un rapporto di interessamento e di apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo degli altri. Il rapporto non era circoscritto, limitato e a poco a poco rivelava la serietà della realtà di tutti, di essere cioè tendenzialmente aperto e interessato a questa sacra parola: tutti”. Tutti, dunque: sacralità di una parola che non rimanda a un esito metafisico ma fonda un nuovo potere e un nuovo mezzo, la nonviolenza, non per conquistarlo ma per trasformarlo e diffonderlo incessantemente. A partire dalla lotta alla guerra e alla sua preparazione, qui ed ora.

[Sintesi della relazione svolta presso il Laboratorio per la pace dell’Università di Ferrara e pubblicata anche su Agenda 17]
(fonte: Comune-Info 21/02/2024)