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martedì 7 agosto 2012

"Il fuoco freddo dell'inferno" di mons. Gianfranco Ravasi

​«Inferno» è ormai una parola un po’ desueta, anche nel linguaggio religioso: abbiamo pensato di soffiar via la cenere che si era depositata su questo argomento incandescente (l’immagine del fuoco, come vedremo, è capitale) e di riproporne qualche aspetto. L’inferno è stato un po’ ostracizzato per ragioni diverse. C’è chi lo considera il reperto di un paleolitico spirituale ormai ammuffito e, al massimo, col filosofo francese Jean-Paul Sartre (1905-1980), proclama che «l’inferno sono gli altri», ossia il prossimo crudele o noioso. C’è invece chi afferma in modo perentorio, citando il poema edito postumo (1886) La fine di Satana di Victor Hugo (1802-1885), che «l’inferno sta tutto intero in questa parola: solitudine», la quale è il campo da gioco di Satana. C’è pure la ben fondata convinzione del filosofo ottocentesco americano William James (1842-1910), secondo il quale «l’inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che noi creiamo a noi stessi in questo mondo». Ed effettivamente, come con la grazia divina accolta e vissuta in noi già si sperimenta il paradiso della salvezza, così chi pecca e odia già è insediato in uno di quei gironi simbolici che mirabilmente Dante ha tratteggiato e popolato nei canti del suo Inferno. 
Dopo tutto, già san Giovanni metteva in bocca a Gesù queste parole: «Chi non crede è già stato condannato» (Gv 3,18). Che l’inferno, poi, sia vuoto lo si è ripetuto sbrigativamente sulla base di una riflessione ben più ponderata e articolata del famoso teologo Hans Urs von Balthasar (1905-1988): si dev’essere invece consapevoli che, se è vero che immensa è la misericordia di Dio, superiore non solo al nostro peccato, ma alla stessa sua giustizia, come già insegnava anche l’Antico Testamento (cf Es 20,5-9; 34,6-7), è altrettanto vero che esiste la libertà umana, presa sul serio da Dio che la rispetta fino alle sue estreme conseguenze, anche quella del rifiuto radicale e totale del bene e dell’amore.
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