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venerdì 7 marzo 2014

Heba e la vera sostanza della sua e della nostra “italianità”

Gli occhi grandi che nei momenti del ricordo si fanno fessura. Le labbra serrate che nei momenti di confidenza si fanno sorriso di primavera. Heba racconta la sua storia. Quella di una giovane diventata italiana pochi giorni fa: ventinove anni dopo l’arrivo in Italia. Ne aveva due quando lasciò la nonna materna e partì dal Cairo per ricongiungersi a padre e madre, a loro volta ritrovatisi a Milano dopo che il capofamiglia era venuto a lavorarci come facchino in un circo. Fece tutte le scuole nel suo nuovo paese, “sempre come unica bambina di origine straniera”. La materna, le elementari, le medie. E le superiori. “E questa è una storia curiosa. Perché io avrei voluto fare il liceo classico, ma la professoressa di italiano lo sconsigliò. Avrei avuto bisogno, diceva di lezioni private, sarebbe costato troppo. Ai figli di immigrati si consiglia sempre di iscriversi agli istituti professionali per andare subito a lavorare. Così andai a un istituto tecnico linguistico sperimentale, il ‘Pasolini’. Ho ancora un po’ di rancore per quella storia”. Ride. E’ rancore dolce come l’espressione, che fa tutt’uno con quel suo velo ciclamino, con quell’abbigliamento a strati, nero, azzurro, e ciclamino ancora.
“Dopo la laurea triennale mi trovai senza più il permesso di soggiorno per ragioni di studio. Fu a quel punto, a 23 anni, che presi coscienza della mia precarietà. Non bastava essere figlia di persone che vivevano in Italia da decenni, né avere fatto qui tutte le scuole, per avere il diritto di restarci. Mi diedero un permesso speciale, sei mesi per chi è in attesa di occupazione. Si può dare una volta sola. Poi il rimpatrio. Mio padre ebbe allora l’idea di farmi aprire una partita Iva e di farmi lavorare con mio zio, commerciante. Una scelta troppo costosa. Davo ripetizioni e facevo lavoretti solo per pagarmi le tasse. Occorreva un lavoro fisso. Mi salvai con un contratto part-time a tempo indeterminato al comitato inquilini del Calvairate, sì, quello animato da Franca Caffa, dove già facevo volontariato e avevo conosciuto Davide, mio marito. 
Insegnavo italiano agli immigrati adulti, accompagnavo all’assistenza socio-sanitaria, facevo mediazione culturale, la mia laurea. Ebbi così la carta di soggiorno, che permette di restare e di viaggiare. E nel 2007 potei fare domanda di cittadinanza. Mio padre la ebbe nel 2009, al terzo tentativo. Io l’ho avuta pochi giorni fa, dopo sette anni”. Ora finalmente Heba Alla Ibrahim è cittadina italiana. Anche se ha perso il lavoro, perché il comitato non riceve più fondi privati né aiuti dal Comune e lei se la cava con ripetizioni private e lezioni di arabo. “Mi ha portato una lettera il messo comunale, diceva che la mia domanda di cittadinanza era stata accettata. Sono andata in municipio a giurare fedeltà alla Costituzione e dopo quattro giorni ho avuto la carta di identità con il mio nome”. 
La carta, le carte. E’ incredibile il loro peso (“un incubo”) nella vita di Heba. Lei ne scherza con l’ironia affinata per difendersi dal nostro razzismo strisciante ma anche da quello dei corregionali di seconda generazione. Per proteggersi dalla retorica compassionevole della “povera immigrata” o da quella ammirata per l’ “immigrata che fa volontariato”: “neanche quella mi piace, perché io non sono un’estranea nella vita di ogni giorno”...

... Perché, ci ricorda Heba, la vera sostanza della sua e della nostra “italianità” non sono la casa, né il paese dove si decide di vivere, siamo noi, sono le nostre relazioni.
Non pensa però a una festa, “no, finché continueranno a esserci morti in mare, o ai confini di qualunque parte del mondo, dietro muri, o durante viaggi non più umani di persone ridotte come non vengono quasi più ridotte le bestie. 
Vorrebbe, piuttosto, fosse un “elogio del margine”, un canto, una sorta di danza della pioggia per tutti quelli che stanno ai margini di qualcosa, in solitudine, e che non tacciono e cercano e osano andare oltre per un’esistenza, una cittadinanza migliore, nonostante muri, pali, spine, ignoranze.
Allora potremmo sorseggiare un tè marocchino con biscotti danesi su di un tappeto siriano in una casa faraonica, davanti a un aperitivo milanese, magari con un’insalata russa, una crema catalana, un gatto persiano, una birra tedesca, scatole e mandarini cinesi, con un po’ di musica araba, leggera leggera, e fumando come turchi …
Porteremo, su sue indicazioni, un quadrato di stoffa della misura e del colore che vogliamo, e soprattutto un pensiero sul “margine”. Heba sarà la nostra Penelope egiziana.