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venerdì 17 luglio 2015

Puro dono è la dote della terra di Luigino Bruni

Le levatrici d’Egitto/14 - 
La "legge del mantello del povero" fonda un'altra economia


Puro dono è la dote della terra
di Luigino Bruni






“Se un uomo ha contratto un debito e se ha dato per denaro moglie, figli, figlie, o se li ha consegnati in servitù, durante tre anni essi lavoreranno nella casa del loro compratore o di colui che li tiene in servitù; ma nel quarto anno recupereranno la loro libertà” (Codice di Hammurabi).

Per capire e rivivere, qui ed ora, il grande messaggio delle ‘dieci parole’ donate da Elohim-YHWH, ci sarebbe bisogno di una cultura dell’alleanza, di una civiltà delle promesse fedeli, capace di patti, che riconosca il valore del ‘per sempre’. Una grande nota del nostro tempo è invece la trasformazione di tutti i patti in contratti, una nota che risuona sempre più forte fino a coprire tutti gli altri suoni del concerto della vita in comune. Lo vediamo con estrema nitidezza nell’ambito dei rapporti famigliari, ma anche nel mondo del lavoro, dove le relazioni lavorative che nel XX secolo erano state concepite e descritte ricorrendo al registro relazionale del patto, oggi si stanno sempre più appiattendo sul solo contratto. Come se la moneta potesse compensare sogni, progetti, attese, la fioritura umana, soprattutto quella dei giovani. Stiamo smarrendo il principio alla base di ogni civiltà capace di futuro: che ai giovani va dato credito, va donata fiducia quando ancora non la meritano perché non la possono meritare. Credito-fiducia ricevuti, che domani potranno e dovranno a loro volta ridonare ai nuovi giovani. Il lavoro cresce e vive in questa amicizia e solidarietà attraverso il tempo, si nutre di questa reciprocità intertemporale. Senza questa staffetta generosa tra generazioni, il lavoro non nasce o nasce male, perché gli manca l’humus della gratuità e dei patti. Ma non lo capiamo più, e così ci stiamo perdendo. Forse avremmo bisogno di rivedere la nube e il fuoco, riudire il tuono dell’Oreb; avremmo bisogno dei profeti, dei loro occhi, della loro voce.
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Questa forma di schiavitù per debiti è ancora ben presente e in crescita nel nostro capitalismo, dove imprenditori, cittadini, quasi sempre poveri, precipitano nella condizione di schiavo solo perché non riescono a ripagare i debiti. E così perdono, ancora oggi, la libertà, la casa, i beni, la dignità, e non di rado anche la vita. Tra gli schiavi per debiti ci sono senz’altro, ieri e oggi, sprovveduti, speculatori maldestri, creduloni; ma ci sono anche imprenditori, lavoratori e cittadini giusti caduti semplicemente in sventura – la Bibbia ci ricorda, basterebbe pensare a Giobbe, che anche il giusto può cadere in sventura, senza nessuna colpa: non tutti i debitori insolventi sono colpevoli. Persone ridotte in condizione di schiavitù non solo dalle mafie e dagli usurai, ma anche da società finanziarie e banche protette dalle nostre ‘leggi’ scritte troppo spesso dai potenti contro i deboli. Ma noi, diversamente del popolo del Sinai, non riusciamo a chiamare per nome (‘schiavi’) questi sventurati, e nessuna legge li libera alla scadenza del settimo anno. Eppure quella antica Legge continua a ripeterci da millenni che nessuna schiavitù deve essere per sempre, perché prima di essere debitori siamo abitanti della stessa terra, siamo figli dello stesso cielo, e quindi, veramente, fratelli e sorelle. Perché la ricchezza che possediamo, e che prestiamo ad un altro, prima di essere nostra proprietà privata è dono ricevuto, è provvidenza, perché ‘mia è tutta la terra’ (19,5). Il riconoscimento che la ricchezza e la terra che possediamo non sono dominio assoluto perché prima sono dono, ispira tutta la legislazione biblica sul denaro e sui beni. Quando, invece, noi oggi pensiamo che la nostra ricchezza sia solo conquista individuale e merito, allora i debiti non vengono mai rimessi, gli schiavi non vengono liberati mai, la giustizia diventa filantropia. Il dominio assoluto dell’individuo sulle sue cose è invenzione tipica della nostra civiltà, ma non è la logica del Sinai, non è la legge vera della vita.
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Dovremmo provare a scrivere una nuova economia a partire dalla ‘legge del mantello del povero’; almeno immaginarla, sognarla, desiderarla, se vogliamo essere degni della voce del Sinai. Dovremmo stampare e affiggere queste parole dell’Esodo sugli stipiti delle nostre banche, sulle porte delle agenzie delle entrate, nelle aule dei tribunali, di fronte alle nostre chiese. Troppi poveri sono lasciati ‘nudi e senza mantello’ nella notte, e muoiono al freddo delle nostre città opulente. Ma il loro grido non resta inascoltato: sono tante, anche oggi, le persone animate da carismi che tutte le sere coprono con i loro mantelli molti poveri delle mille Stazioni Termini del mondo. Non sono sufficienti a coprire le troppe pelli ancora denudate di giorno e di notte. Ma la loro presenza rende vive e vere quelle antiche parole di vita, che così possono parlarci più forte, scuoterci, farci dormire meno tranquilli al caldo dei nostri molti mantelli.