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martedì 10 novembre 2015

C’è un tempo per piangere… c’è un tempo per fare rumore di Antonietta Potente

C’è un tempo per piangere… 
c’è un tempo per fare rumore
di Antonietta Potente
Teologa italiana. Fa parte della congregazione dell'Unione delle Suore Domenicane di San Tommaso d'Aquino. Ha conseguito il dottorato in teologia morale presso laPontificia Università di San Tommaso D'Aquino in Roma con una tesi intitolata: La Diakonia: cooperazione della storia alla riconciliazione compiuta da Dio Trinità. È stata assistente di cattedra di p. Dalmazio Mongillo. Ha insegnato teologia morale a Roma presso l'Angelicum, e a Firenze presso la Facoltà Teologica dell'Italia Centrale. Dal 1994 vive in Bolivia, dapprima a Santa Cruz de la Sierra, poi a Cochabamba. Sperimenta una nuova forma di vita comunitaria abitando insieme a dei campesinos di etnia Aymara.

C’è un tempo per piangere, dice il libro del Qoelet (Qo 1,4). Infatti in sanscrito, lingua madre delle lingue indoeuropee, le lacrime sono ciò che fa rumore. E allora potremmo parafrasare il Qoelet: c’è un tempo per far rumore ed è questo. Sono troppi i motivi che abbiamo per piangere e dunque fare rumore. Ma certo non su noi stesse, sulle nostre storie che, comunque, anche se belle, sono troppo nostre.

In questo momento niente ci può distrarre da questa precaria situazione politica, economica e di conseguenza ambientale, dell’umanità e del pianeta. Il tempo per piangere, cioè per gridare, è il nostro; è quello di tutte e tutti, di tutto, dell’umanità e del cosmo. 

D’altra parte, nelle nostre scelte fondamentali di vita sappiamo benissimo che i nostri occhi rivolti al Signore non vedono il volto di Dio, che non si può vedere, ma il volto dell’umano più umano e del suo ambiente più quotidiano che è la terra. 
I nostri occhi, rivolti al Signore, sono pieni di desiderio perché questa storia cambi. Ma l’atteggiamento vero non è quello di attesa perché avvenga qualcosa dall’alto; non è quello di una preghiera che non sa nemmeno cosa chiede, perché non sa nemmeno in che storia stiamo pregando. Non possiamo più distogliere lo sguardo da questa realtà.


E cosa succede in questa realtà? Rumori di guerra a distanza, tanti, troppi. Lacrime, cioè gridi di troppe persone, oltre a quelli delle foreste e dei deserti. Troppe fughe, troppi pellegrinaggi intrapresi violentemente. 


Un’umanità che non ha tregua nel suo dolore, perché non hanno tregua le guerre, gli abusi su donne, bambini, uomini, e sulla terra, l’acqua, l’aria, le risorse naturali in generale.
Questa situazione è così incalzante che nessuno di noi sembra trovare soluzioni; potersi fermare e cambiare rotta in mezzo a ogni esodo forzato. Sembra che le bombe ti corrano dietro, ti perseguitino i proiettili, gli spari, ma anche la fame, la siccità, il vuoto, un grande vuoto preme addosso. 
Le trivelle cercano oro mentre “gli alleati” (appellativo assurdo e violento) bombardano tutto, anche i microrganismi sotterranei, quelli di cui (per fede) noi sappiamo che Dio si prende cura, così come vorrebbe prendersi cura dei capelli del capo di ciascuno, degli uccelli, del cibo, dell’acqua, del vestito di ognuno, ecc.

Ma come fa Dio a prendersi cura? Tutto è troppo incalzante, nessuno può dimorare in pace nel posto a lui assegnato. Perché c’è troppa violenza.
Che cosa può la vita religiosa in tutto questo? Che cosa possiamo noi che preghiamo tutti i giorni per la pace? Ma da dove pensiamo che venga questa pace? Dall’alto? Dalla volta celeste degli dei?
No, no. No, noi lo sappiamo benissimo che dobbiamo svegliarci, che dobbiamo non solo accompagnare la fuga dei profughi e non abbandonare la terra violentata dai predatori internazionali, ma sappiamo anche che dobbiamo gridare, cioè fare rumore, abbandonare questo sistema perché resti solo, perché non abbia più potere su nessuno, perché non abbia più alleati. 
Se alcuni di noi stanno ancora lontano dalla guerra non possono permettersi di restare inerti, senza fare nulla, senza voltare le spalle a queste democrazie che, oltre a sfruttare ogni risorsa dei popoli, studiano giorno e notte come ingannarci.


Perché la vita religiosa è così neutrale? Perché? Qualcuno dirà che non lo è stata negli anni Settanta, Ottanta, e lo so; ma perché oggi noi in Europa, e in Italia concretamente, viaggiamo su queste coordinate così certe e sicure? Perché non insegniamo a chi cerca di camminare su questa strada che non esiste una vita religiosa sicura e che la nostra preghiera non serve a salvare noi stessi, ma si mescola alle lacrime che fanno rumore? Come hanno fatto tante nostre madri e padri nella fede, affrontando questo perverso sistema socioeconomico che esporta solo morte; che vende solo morte; che uccide partecipazione; che azzittisce i desideri dell’anima e costringe l’umanità tutta a divenire mendicante. 

È tempo di svegliarci dal sonno e le nostre lacrime devono fare rumore, perché, come recitava Giovanni Pascoli nella notte delle stelle cadenti, sì gran pianto nel concavo cielo sfavilla.
Non ci resta niente altro da fare come pratica reale di vita; noi, abituate a bisbigliare le parole, noi, abituate a usare molte volte un linguaggio neutrale che resta in piedi ovunque, che deve piacere più o meno a tutti. Ma ora no, ora non è più un tempo del coro modulato, delle parole dolci e delicate. Ora è il tempo di alzare le voci, con il cielo, con la terra, le pietre e le piante.È assurdo che la nostra scelta di vita si compiaccia di sé stessa, e noi lo stesso. È assurdo e triste che chi si è sospinto fino a osare delle relazioni diverse, al di là di legami familiari istituzionali, chi (come direbbe il Vangelo) ha lasciato madre e padre, sorelle, fratelli, campi e case – o, per lo meno, ha lasciato il suo popolo, per osare al di là di ogni cultura e tradizione –, oggi pensi che davanti alla violenza dei forti, alle guerre rigorosamente studiate e dunque volute, ai fiumi della falsità di chi dice di avere amore per l’umano e per il cosmo non si possa far niente.

È impossibile dire che noi non c’entriamo, che non riguarda le nostre scelte, che a noi queste cose non competono. Ma per esempio: quanto posto c’è per queste cose, in una vita di formazione alla vita religiosa, mentre insegniamo l’ermeneutica biblica, le lingue sacre, le norme della Chiesa?
C’è un dolore forse simile al mio dolore?, scriveva il profeta nelle Lamentazioni. E scriveva perché non riusciva più a dirlo, perché lo scrivere era come strappare il silenzio alle pareti, ai sassi, ai muri, ai tasti dei nostri computer, all'inchiostro delle nostre penne. Ma quale eco ha questo dolore in quegli spazi formativi dedicati a… imparare che? 
Di quale formazione, cioè “forma di azione”, stiamo parlando?
(Fonte: Combonifem)