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sabato 19 marzo 2016

Quali paternità? di Piero Stefani



Quali paternità? 
di Piero Stefani


L’ironia è la maschera che smaschera, l’ipocrisia è la maschera che si presenta come volto, la sincerità è il volto che si palesa come tale. Non stupisce che per smascherare l’ipocrisia l’ironia sia più efficace della sincerità. Il sarcasmo dal canto suo è il tentativo di rivestire l’invettiva con i panni dell’ironia. Non sempre l’operazione riesce; difficile mettere assieme la leggerezza e la pesantezza, il bulino con il maglio. Anche gli evangelisti a volte non ci riuscirono.
Le lunghe invettive evangeliche contro scribi e farisei assumono un tono sarcastico. Qui non ci interessa valutare il loro nefasto influsso avuto sull’antigiudaismo cristiano. Il punto è ovviamente rilevante ma ora miriamo in altra direzione.
Ironia e ipocrisia hanno qualcosa di comune. A dircelo non è solo l’etimo. Si tratta del ricorso alla finzione. Entrambe fingono; a renderle opposte è il loro scopo: una smaschera l’altra nasconde. Il sarcasmo dal canto suo indossa una maschera dai tratti aggressivi, per questo è più greve e, il più delle volte, meno efficace dell’ironia. Il culmine del discorso di denuncia di scribi e farisei sta nel definirli «sepolcri imbiancati» (Mt 23,27) . La bianca purità della facciata tende a nascondere l’impuro marciume interno. La forza retorica, non a caso diventata proverbiale, del detto sta nell’efficacia dell’immagine. Tuttavia il sarcasmo, nel momento in cui si presenta come ironia insultante, svela troppo precocemente il proprio intento. L’ironia lascia l’avversario senza difese; invece il sarcasmo, che pur pretende di essere più incisivo, di solito graffia meno.
Vi sono ironie involontarie. Queste avvengono, per esempio, quando un passo in se stesso serio viene letto ironicamente una volta trasportato in un contesto differente dall’originale. L’operazione è applicabile allo stesso ventitreesimo capitolo di Matteo. Nella sua parte iniziale il discorso messo in bocca a Gesù è diretto ai discepoli. Lì si afferma: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23, 8). Il Vangelo è il libro più venerato dai cristiani; tuttavia, nonostante la citata proibizione, nella Chiesa cattolica il titolo di “padre” è tra i più diffusi. Francesco di Assisi volle che il suo ordine fosse contraddistinto da quel «voi siete tutti fratelli»; i francescani, al pari dei membri degli altri ordini religiosi, se presbiteri sono però chiamati «padri». Basta un esempio: ufficialmente è «San Pio da Petralcina» eppure lo si continua a chiamare «Padre Pio» (o «San Padre Pio»). Del resto il vertice della Chiesa cattolica è occupato dal «Santo Padre»; né il più comune nome di «papa» ci porta su altri lidi. Uno spirito volterriano trarrebbe conseguenze poco piacevoli dal fatto di constatare che la proibizione evangelica di chiamare qualcuno «padre» è contenuta in un discorso diretto contro l’ipocrisia.
In ambito profano, recenti vicende ripropongono all’attenzione problemi legati a modi inconsueti di diventare padri. Il desiderio di paternità è un diritto da perseguire a ogni costo (compreso il versante economico del termine) e con ogni mezzo? La risposta è negativa. Per rendersene conto basterebbe tener presente l’impossibilità di applicare il termine «diritto» a chi è chiamato all’esistenza per questa via: nessuno è nelle condizioni di avere diritto di nascere. Allorché ci si riferisce ai diritti la simmetria resta un punto fermo e in questo caso ciò non si dà.
Quando si parla di paternità e maternità responsabili l’antico linguaggio del dovere resta il più consono. E chi non può o non vuole seguire la via della comune genitorialità?  Anche in questo caso è ben lecito parlare di dovere e di responsabilità rispetto a chi nel mondo c’è già.
L’adozione è una via per essere veri padri e madri. Pur evitando indebiti cortocircuiti, non pare un caso che anche Paolo parli, in senso spirituale, di adozione a figli (Rm 8,23).
(Fonte: il Pensiero della settimana, n. 558)