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martedì 24 maggio 2016

LETTERA APERTA AL PAPA - MONUMENTO AL "PARROCO IGNOTO" di p . Alberto B.Simoni, OP


LETTERA APERTA AL PAPA 

MONUMENTO AL "PARROCO IGNOTO"

di p . Alberto B.Simoni, op

Alberto B.Simoni scrive a Papa Francesco che traccia l'identikit dei suoi preti nel Discorso alla Conferenza episcopale italiana  (Lunedì, 16 maggio 2016)






Padre Francesco,
rivolgermi a te come "Padre" mi porta a ripensare ad una antifona che francescani e domenicani cantano quando si scambiano la visita nella feste dei loro rispettivi Fondatori: "Il serafico padre Francesco e il cherubico Padre Domenico sono loro, o Signore, che ci hanno insegnato la tua via,". Ed è in questa prospettiva di via evangelica al sevizio pastorale che ho letto e meditato le tue parole all'Assemblea generale dei Vescovi riguardo al "rinnovamento del clero".


Inviti tutti "a capovolgere la prospettiva e a metterci in ascolto", ponendo attenzione non tanto a norme e prassi codificate, ma "a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità": a chi opera sul campo senza "interpretarsi come un devoto, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco" ma che "si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l'abbandono e la sofferenza... per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro".

Verrebbe da dire che queste parole sono un monumento al "parroco ignoto", che dentro un ordinamento religioso e giuridico di altri tempi (in un "contesto culturale molto diverso da quello in cui ha mosso i primi passi nel ministero"), riesce a svestirsi dei suoi indumenti talari e a togliersi i calzari del dominio ("è scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa"). Ma tutto questo lo fa grazie al superamento di tante barriere mentali e formali per una sua spiritualità e libertà interiore e non in forza di una impostazione pastorale d'insieme e riconosciuta, che se da una parte è di ostacolo o di fuga, dall'altro esce ulteriormente rafforzata dalla presenza invisibile di questo "parroco ignoto". Sembra che anche tu riconosca questo stato di cose e ti proponga di arrivare ad un capovolgimento di prospettiva quando dici: "Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell'istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell'efficienza".

Ma eccomi a chiedere: è sufficiente una risoluzione spirituale e individuale per ottenere tutto questo, o non sarebbe necessario un cambiamento radicale (nel DNA del ministero sacerdotale) prima che un cambiamento di rotta rispetto a "criteri di efficienza" o di successo (che sarebbe già abbastanza!)? Si dovrebbe dire in altre parole come fare perché la "fabbrica dei preti" producesse quel prototipo che tu ci presenti: "Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi".

A questo punto a contare non è più neanche il "parroco" canonicamente costituito, ma il semplice ministro e servo di Cristo a favore degli uomini e del Popolo di Dio nella "comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo". E' insomma "colui che vive per il Vangelo ed entra così in una condivisione virtuosa: il pastore è convertito e confermato dalla fede semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive. Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno. In questo tempo povero di amicizia sociale, il nostro primo compito è quello di costruire comunità".

Ancora una volta ci fai capire cosa deve esserci in primo piano. Che se poi non si volesse capire ce lo ripeti in termini molto tangibili: "Nella vostra riflessione sul rinnovamento del clero rientra anche il capitolo che riguarda la gestione delle strutture e dei beni: in una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l'apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l'esperienza di fede e di carità del popolo di Dio". E' un criterio di discernimento e un metro di comportamento molto chiaro: ma sempre in chiave individuale o come motivo di capovolgimento di prospettiva per una cambiamento d'epoca, come spesso ci ripeti?

Il mio timore è che alla fine tutto si risolva sul piano personale caso per caso, mentre l'impianto rimane quello di potere di sempre. E' un timore avvalorato da queste ultime tue parole, che denotano un ripiegamento soggettivo dell'impegno pastorale: "Il nostro presbitero, con i suoi limiti, è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l'hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. Anche quando nessuno sembra accorgersene. Anche quando intuisce che, umanamente, forse nessuno lo ringrazierà a sufficienza del suo donarsi senza misura". Tutto questo non è da escludere, anzi è necessario ed inevitabile, ma non deve essere inteso solo come correttivo ai limiti di un sistema che mortifica e che si vorrebbe addirittura rovesciare.

Il problema allora si presenta diversamente: se si tratta di un sistema irriformabile o meno, e nel caso fosse riformabile come farlo. E' a questo punto che mi permetto di avanzare qualche considerazione e suggerimento per dare un minimo di visibilità alla pastorale sommersa del "parroco ignoto" che si vorrebbero portare in primo piano. A mio modo di vedere - maturato peraltro in tanti anni di servizio del vangelo sul campo - non è il caso di aspettarsi una trasformazione o conversione delle strutture pastorali di un sistema ormai consolidato in norme, ruoli, prassi, consuetudini, mentalità egemoni. Anche su questo siamo avvertiti, quando ci viene detto che "è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!" (Lc 18,25). Infatti, una trasformazione radicale non avviene mai per modificazioni ma per rigenerazione, come viene insegnato a Nicodemo: "In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio" (Gv. 3,3).

E' qui che deve avvenire il rovesciamento: guardare a ciò che è allo stato nascente, alle relazioni vissute, alle situazioni di vita di ciascuno, alla effettiva risoluzione comunitaria dei rapporti, a quella "carità pastorale che fa liberi e solidali" e a quella "amicizia sociale" a cui tu fai riferimento: si tratta di quella dimensione o "legge perfetta, la legge della libertà" (Gc 1,25) a cui siamo chiamati come battezzati, tant'è che "Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5,1). Se a questo siamo chiamati, a questo dovremmo essere anche formati come credenti e come chiesa. Ma fino a quando continuerà a dominare una legge in quanto tale - e cioè in quanto istituzione e ordinamento canonico - un cambiamento di sistema non avverrà mai, se non appunto a prezzo di coraggio da parte di singoli e a forza di emarginazione ed esclusione da parte del corpo ecclesiale.

Stando così le cose, un segnale significativo verso il capovolgimento di prospettiva che lei auspica sarebbe un gesto di riconoscimento e di reintegrazione di quanti hanno subito emarginazione e discriminazione istituzionale unicamente a causa della loro libera dedizione ai fratelli nel servizio del vangelo. Ma è chiaro che un passo decisivo in tal senso ci sarebbe soltanto qualora questa libertà di azione pastorale fosse promossa e garantita al di là di preoccupazioni di efficienza e di conformismo clericale. Da parte mia non saprei dire come, al di là delle esortazioni che da te ci vengono ripetutamente. Quello che posso dire è che è possibile andare comunque avanti avendo a cuore "soltanto ciò che può servire per l'esperienza di fede e di carità del popolo di Dio".

Ci dici in apertura del tuo discorso che "senza lo Spirito Santo non esiste possibilità di vita buona, né di riforma". Non fai che ricordarci quanto ci ha detto il Signore Gesù: "Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra"(At 1,8). Testimoni di Lui, prima che di ogni altra potenza o potere! Che l'amore di Cristo ci spinga.

E per questo confido nella sua apostolica benedizione assicurandoti la mia povera preghiera.

P.Alberto Bruno Simoni op

Guarda anche il post già pubblicato:
- Papa Francesco sulla figura del sacerdote e la sua triplice appartenenza: al Signore, alla Chiesa, al Regno (testi e video)