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giovedì 30 giugno 2016

Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo - S. Messa e imposizione dei palli - Angelus (foto, testi e video)

 29 giugno 2016 

 S. Messa e benedizione dei palli 

Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alle ore 9.30, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco benedice i Palli, presi dalla Confessione dell’Apostolo Pietro e destinati agli Arcivescovi Metropoliti nominati nel corso dell’anno. 
Si tratta di 25 presuli dei 5 continenti, 6 sono italiani: Matteo Maria Zuppi (Bologna), Corrado Lorefice (Palermo), Salvatore Ligorio (Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo), Lauro Tisi (Trento) e Felice Accrocca (Benevento). ; italiano pure il domenicano Lorenzo Piretto, dallo scorso novembre arcivescovo di Izmir (Smirne), in Turchia.

Il rito si apre con la processione, accompagnata dal canto del “Tu es Petrus”.

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Dopo il rito di benedizione dei Palli, il Papa presiede la Celebrazione Eucaristica con i nuovi Arcivescovi Metropoliti. 
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, guidata dalla Delegazione inviata da S.S. Bartolomeo I e guidata da Sua Eminenza Methodios, Metropolita di Boston, accompagnato da Sua Eccellenza Job, Arcivescovo di Telmessos, e dal Rev.do Diacono Patriarcale Nephon Tsimalis. 






Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la lettura del Vangelo, il Papa ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:

La Parola di Dio di questa liturgia contiene un binomio centrale: chiusura / apertura. A questa immagine possiamo accostare anche il simbolo delle chiavi, che Gesù promette a Simone Pietro perché possa aprire l’ingresso al Regno dei Cieli, e non certo chiuderlo davanti alla gente, come facevano alcuni scribi e farisei ipocriti che Gesù rimprovera (cfr Mt 23,13).

La lettura degli Atti degli Apostoli (12,1-11) ci presenta tre chiusure: quella di Pietro in carcere; quella della comunità raccolta in preghiera; e – nel contesto prossimo del nostro brano – quella della casa di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove Pietro va a bussare dopo essere stato liberato.

Rispetto alle chiusure, la preghiera appare come la via di uscita principale: via di uscita per la comunità, che rischia di chiudersi in se stessa a causa della persecuzione e della paura; via di uscita per Pietro, che ancora all’inizio della sua missione affidatagli dal Signore viene gettato in carcere da Erode e rischia la condanna a morte. E mentre Pietro era in prigione, «dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (At 12,5). E il Signore risponde alla preghiera e manda il suo angelo a liberarlo, “strappandolo dalla mano di Erode” (cfr v. 11). La preghiera, come umile affidamento a Dio e alla sua santa volontà, è sempre la via di uscita dalle nostre chiusure personali e comunitarie. E’ la grande via di uscita dalle chiusure.

Anche Paolo, scrivendo a Timoteo, parla della sua esperienza di liberazione, di uscita dal pericolo di essere lui pure condannato a morte; invece il Signore gli è stato vicino e gli ha dato forza perché lui potesse portare a compimento la sua opera di evangelizzazione alle genti (cfr 2 Tm 4,17). Ma Paolo parla di una “apertura” ben più grande, verso un orizzonte infinitamente più vasto: quello della vita eterna, che lo attende dopo aver terminato la “corsa” terrena. E’ bello allora vedere la vita dell’Apostolo tutta “in uscita” grazie al Vangelo: tutta proiettata in avanti, prima per portare Cristo a quanti non lo conoscono, e poi per buttarsi, per così dire, nelle sue braccia, ed essere portato da Lui «in salvo nei cieli, nel suo regno» (v. 18).

Ritorniamo a Pietro. Il racconto evangelico (Mt 16,13-19) della sua confessione di fede e della conseguente missione affidatagli da Gesù ci mostra che la vita di Simone, pescatore galileo – come la vita di ognuno di noi –, si apre, sboccia pienamente quando accoglie da Dio Padre la grazia della fede. Allora Simone si mette sulla strada – una strada lunga e dura – che lo porterà a uscire da se stesso, dalle sue sicurezze umane, soprattutto dal suo orgoglio mischiato con il coraggio e con il generoso altruismo. In questo suo percorso di liberazione, decisiva è la preghiera di Gesù: «Io ho pregato per te [Simone], perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,32). E altrettanto decisivo è lo sguardo pieno di compassione del Signore dopo che Pietro lo aveva rinnegato tre volte: uno sguardo che tocca il cuore e scioglie le lacrime del pentimento (cfr Lc 22,61-62). Allora Simone Pietro fu liberato dal carcere del suo io orgoglioso, del suo io pauroso, e superò la tentazione di chiudersi alla chiamata di Gesù a seguirlo sulla via della croce.

Come accennavo, nel contesto prossimo del brano degli Atti degli Apostoli c’è un particolare che può farci bene notare (cfr 12,12-17). Quando Pietro si trova miracolosamente libero fuori dal carcere di Erode, si reca alla casa della madre di Giovanni detto Marco. Bussa alla porta, e dall’interno risponde una domestica di nome Rode, la quale, riconosciuta la voce di Pietro, invece di aprire la porta, incredula e piena di gioia insieme corre a riferire la cosa alla padrona. Il racconto, che può sembrare comico – e che può dare inizio al cosiddetto “complesso di Rode” –, ci fa percepire il clima di paura in cui si trovava la comunità cristiana, che rimaneva chiusa in casa, e chiusa anche alle sorprese di Dio. Pietro bussa alla porta. “Guarda!”. C’è gioia, c’è paura… “Apriamo, non apriamo?...”. E lui è in pericolo, perché la polizia può prenderlo. Ma la paura ci ferma, ci ferma sempre; ci chiude, ci chiude alle sorprese di Dio. Questo particolare ci parla della tentazione che sempre esiste per la Chiesa: quella di chiudersi in se stessa, di fronte ai pericoli. Ma anche qui c’è lo spiraglio attraverso cui può passare l’azione di Dio: dice Luca che in quella casa «molti erano riuniti e pregavano» (v. 12). La preghiera permette alla grazia di aprire una via di uscita: dalla chiusura all’apertura, dalla paura al coraggio, dalla tristezza alla gioia. E possiamo aggiungere: dalla divisione all’unità. Sì, lo diciamo oggi con fiducia insieme ai nostri fratelli della Delegazione inviata dal caro Patriarca Ecumenico Bartolomeo, per partecipare alla festa dei Santi Patroni di Roma. Una festa di comunione per tutta la Chiesa, come evidenzia anche la presenza degli Arcivescovi Metropoliti venuti per la benedizione dei Palli, che saranno loro imposti dai miei Rappresentanti nelle rispettive Sedi.

I santi Pietro e Paolo intercedano per noi, perché possiamo compiere con gioia questo cammino, sperimentare l’azione liberatrice di Dio e testimoniarla a tutti.

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Dallo scorso anno il Papa ha deciso di modificare la modalità di consegna del pallio ai nuovi arcivescovi metropoliti, mantenendo il significato della comunione tra il Papa e i nuovi arcivescovi e, al tempo stesso, dando più valore al legame con la Chiesa locale. La striscia di lana bianca, simboleggiante la pecora sulle spalle di Gesù Buon Pastore, sarà infatti consegnata e non più “imposta” dal Santo Padre. L’imposizione del pallio ai nuovi arcivescovi avverrà invece nella loro diocesi per mano dei nunzi apostolici locali, alla presenza dei vescovi suffraganei e dei fedeli.

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 Angelus 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Celebriamo oggi la festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo, lodando Dio per la loro predicazione e la loro testimonianza. Sulla fede di questi due Apostoli si fonda la Chiesa di Roma, che da sempre li venera come patroni. Tuttavia, è l’intera Chiesa universale che guarda ad essi con ammirazione, considerandoli due colonne e due grandi luci che brillano non solo nel cielo di Roma, ma nel cuore dei credenti di Oriente e di Occidente.

Nel racconto della missione degli Apostoli, il Vangelo ci dice che Gesù li inviò a due a due (cfr Mt 10,1; Lc 10,1). In un certo senso anche Pietro e Paolo, dalla Terra Santa, furono mandati fino a Roma per predicare il Vangelo. Erano due uomini molto diversi l’uno dall’altro: Pietro un “umile pescatore”, Paolo “maestro e dottore”, come recita la liturgia odierna. Ma se qui a Roma conosciamo Gesù, e se la fede cristiana è parte viva e fondamentale del patrimonio spirituale e della cultura di questo territorio, lo si deve al coraggio apostolico di questi due figli del Vicino Oriente. Essi, per amore di Cristo, lasciarono la loro patria e, incuranti delle difficoltà del lungo viaggio e dei rischi e delle diffidenze che avrebbero incontrato, approdarono a Roma. Qui si fecero annunciatori e testimoni del Vangelo tra la gente, e suggellarono col martirio la loro missione di fede e di carità.

Pietro e Paolo oggi ritornano idealmente tra di noi, ripercorrono le strade di questa Città, bussano alla porta delle nostre case, ma soprattutto dei nostri cuori. Vogliono portare ancora una volta Gesù, il suo amore misericordioso, la sua consolazione, la sua pace. Abbiamo tanto bisogno di questo! Accogliamo il loro messaggio! Facciamo tesoro della loro testimonianza! La fede schietta e salda di Pietro, il cuore grande e universale di Paolo ci aiuteranno ad essere cristiani gioiosi, fedeli al Vangelo e aperti all’incontro con tutti.

Durante la Santa Messa nella Basilica di San Pietro, stamani ho benedetto i Palli degli Arcivescovi Metropoliti nominati in quest’ultimo anno, provenienti da diversi Paesi. Rinnovo il mio saluto e il mio augurio a loro, ai familiari e a quanti li hanno accompagnati in questo pellegrinaggio; e li incoraggio a proseguire con gioia la loro missione al servizio del Vangelo, in comunione con tutta la Chiesa e specialmente con la Sede di Pietro, come esprime proprio il segno del Pallio. Nella stessa celebrazione ho accolto con gioia e affetto i Membri della Delegazione venuta a Roma a nome del Patriarca Ecumenico, il carissimo fratello Bartolomeo. Anche questa presenza è segno dei fraterni legami esistenti tra le nostre Chiese. Preghiamo perché si rafforzino sempre più i vincoli di comunione e la comune testimonianza.

Alla Vergine Maria, Salus Populi Romani, affidiamo oggi il mondo intero, e in particolare questa città di Roma, perché possa trovare sempre nei valori spirituali e morali di cui è ricca il fondamento della sua vita sociale e della sua missione in Italia, in Europa e nel mondo.

Dopo l'Angelus:

Cari fratelli e sorelle,

ieri sera, a Istanbul, è stato compiuto un efferato attacco terroristico, che ha ucciso e ferito molte persone. Preghiamo per le vittime, per i familiari e per il caro popolo turco. Il Signore converta i cuori dei violenti e sostenga i nostri passi sulla via della pace. Preghiamo tutti in silenzio.

[Un momento di silenzio]

Ave Maria…
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...

Il mio saluto oggi va soprattutto ai fedeli di Roma, nella festa dei santi Pietro e Paolo, Patroni della Città! Per tale ricorrenza la “Pro Loco” di Roma ha promosso la tradizionale Infiorata, realizzata da diversi artisti e dai volontari del Servizio Civile. Grazie per questa iniziativa e per le belle rappresentazioni floreali! E desidero ricordare anche lo spettacolo pirotecnico che avrà luogo stasera a Piazza del Popolo, il cui ricavato andrà a sostegno di opere di carità in Terra Santa e nei Paesi del Medio Oriente.

A tutti voi auguro una buona festa, la festa dei Patroni di Roma. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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“Ripensare il ruolo della donna e dei laici nella Chiesa” di Aldo Pintor

Ripensare il ruolo della donna e dei laici nella Chiesa
di Aldo Pintor

I lettori che hanno conosciuto la messa pre-conciliare possono ben ricordare come donne e bambini durante le celebrazioni eucaristiche occupavano stabilmente i primi banchi delle chiese mentre gli uomini preferivano stare negli ultimi posti vicino al portone e spesso uscivano fuori a fare due chiacchiere entrando solo in certi momenti. Il fatto che la messa allora fosse celebrata in latino, lingua sconosciuta ai più certo non favoriva la partecipazione attiva e solo donne e bambini da sempre adibiti a una posizione subordinata anche nella società oltre che nella chiesa la seguivano tutta, magari recitando il rosario. 

Su questo argomento Lucetta Scaraffia ha pubblicato il suo ultimo libro, appunto. Il titolo di questa opera è “Dall'ultimo banco” (Marsilio € 12,50). 

Nonostante il titolo di questo libro appaia contraddizione con quanto abbiamo detto all'inizio dell'articolo, Lucetta Scaraffia vuole provocatoriamente indicare come il ruolo delle donne nella chiesa sia stato sempre secondario rispetto a quello maschile nonostante spesso a messa siedano nei primi banchi e non agli ultimi come appunto dice il titolo. 

Lucetta Scaraffia ha seguito i lavori del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia e in questo breve ma denso saggio esamina non tanto il ruolo subalterno che in effetti le donne occupano nell'istituzione ecclesiastica ma costruttivamente spiega che giovamento avrebbe la chiesa se in essa fosse maggiormente valorizzata la sensibilità femminile finora troppo spesso repressa. Devo dire che anche se la prefazione scritta da Corrado Augias, sottolinea che gli aspetti di chiusura della chiesa istituzionale, cupamente in modo quasi inesorabile, il libro di Lucetta Scaraffia pur non celando un certo rammarico perché la donna dentro la chiesa non ha avuto la posizione che merita, ma nelle sue pagine ci invita decisamente alla speranza dandocene fondato motivo. Do merito all'autrice di non essersi appiattita sull'eterna questione della mancata ordinazione sacerdotale della donna e di aver compiuto invece una lucida e coraggiosa analisi esponendo le ragioni per cui la emancipazione della donna dentro la chiesa non deve necessariamente passare per l'esercizio del sacerdozio ma sarebbe necessario arrivare a un servizio ministeriale tipicamente femminile che possa immettere in modo salutare dentro la chiesa uno spirito e una sensibilità diversi da quelli maschili. Così si eviterebbero il deleterio emulare di ruoli e di condotte maschili aggressivi e competitivi e si valorizzerebbero la specificità femminili. Ovviamente questo libro e le sue non banali riflessioni possono essere un valido punto di partenza per ripensare in modo positivo anche il ruolo dei laici che dentro le chiese anche loro occupano troppo spesso gli ultimi banchi, nonostante già dal Concilio Vaticano secondo si parla anche con insistenza di apostolato dei laici. Al di la di questi sviluppi conciliari rimasti purtroppo teorici i semplici battezzati ancora non riescono ad avere altro ruolo da quello che con linguaggio oramai desueto si chiamava chiesa discente. Lucetta Scaraffia è responsabile del mensile Donne chiesa e mondo collegato al quotidiano Osservatorio Romano e già da tempo con riflessioni finalizzate tenta di far sgorgare dentro la chiesa diversa sensibilità che ridiano freschezza al messaggio evangelico. Freschezza che purtroppo è andata smarrendosi in quanto troppo spesso il Vangelo è annunciato secondo ottiche di questo mondo, in modo o maschiliste o efficentiste. D'altra parte non è un caso se i Vangeli ci raccontano di diversi scontri avuti da Gesù con persone di sesso maschile. Non se ne ricorda invece nemmeno uno con donne. Questo particolare qualcosa vorrà dire.



mercoledì 29 giugno 2016

VIAGGIO APOSTOLICO DI PAPA FRANCESCO IN ARMENIA (24-26 GIUGNO 2016) / Visita al Tzitzernakaberd Memorial Complex e Santa Messa a Gyumri (foto, testi e video)

 25 giugno 2016 

Visita al Tzitzernakaberd Memorial Complex


Francesco ha lasciato il Palazzo Apostolico di Etchmiadzin e si è trasferito in auto a Tzitzernakaberd per la visita al Complesso dedicato alla memoria delle vittime del Metz Yeghérn, il massacro del popolo armeno sotto l’impero ottomano del 1915. 

Accompagnato dal Catholicos Karekin II, è stato accolto dal presidente della Repubblica Serzh Sargsyan, e insieme hanno percorso a piedi l’ultimo tratto del viale che porta al Memoriale, tra due ali di bambini e giovani che mostravano ricordi e immagini dei martiri del 1915. 


All’esterno del monumento il Papa ha deposto una corona di fiori, soffermandosi in raccoglimento. 


Scesi nella camera della fiamma perenne, il Santo Padre ha deposto una rosa bianca e pregato in silenzio, quindi tutti i presenti hanno recitato il Padre Nostro ognuno nella propria lingua. Il Papa e il Catholicos hanno benedetto l’incenso mentre il coro cantava l’Hrashapar.



Quindi sono state proclamate due letture: la prima tratta dalla Lettera agli Ebrei (Avete dovuto sopportare una lotta grande) e la seconda dal Vangelo di Giovanni (Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò). Al termine il Papa ha pronunciato la Preghiera di intercessione
Cristo, che incoroni i tuoi santi
e adempi la volontà dei tuoi fedeli
e guardi con amore e dolcezza alle tue creature,
ascoltaci dai cieli della tua santità,
per l’intercessione della santa Genitrice di Dio,
per le suppliche di tutti i tuoi santi,
e di quelli di cui oggi è la memoria.
Ascoltaci, Signore, e abbi pietà,
perdonaci, espia e rimetti i nostri peccati.
Rendici degni di glorificarti,
con sentimenti di grazie,
insieme al Padre e allo Spirito santo,
ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.

Al termine della preghiera Papa Francesco ha benedetto un albero a memoria della visita. 
Al memoriale era presente anche un gruppo di bambini con i cartelli dei martiri del 1915. Sulla terrazza erano presenti anche una decina di discendenti di perseguitati armeni, a suo tempo salvati e ospitati a Castel Gandolfo dall'allora Papa Benedetto XV.

Prima di congedarsi Bergoglio ha firmato il Libro d'Onore.

“Qui prego, col dolore nel cuore, – ha scritto il Papa – perché mai più vi siano tragedie come questa, perché l’umanità non dimentichi e sappia vincere con il bene il male; Dio conceda all’amato popolo armeno e al mondo intero pace e consolazione. Dio custodisca la memoria del popolo armeno. La memoria non va annacquata né dimenticata; la memoria è fonte di pace e di futuro”.


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Dal Mausoleo il Papa quindi si è recato all’aeroporto di Yerevan per trasferirsi a Gyumri per celebrare la Messa nella piazza Vartanàns.



Santa Messa a Gyumri

Il Papa ha celebrato la Messa a Gyumri, seconda città dell’Armenia. La celebrazione si è tenuta nella piazza Vartanàns. La Messa votiva della Misericordia, è stata celebrata secondo il rito latino. Presente anche il Catholicos Karekin II.





L'omelia di Papa Francesco

«Riedificheranno le rovine antiche, restaureranno le città desolate» (Is 61,4). In questi luoghi, cari fratelli e sorelle, possiamo dire che si sono realizzate le parole del profeta Isaia che abbiamo ascoltato. Dopo le terribili devastazioni del terremoto, ci troviamo oggi qui a rendere grazie a Dio per tutto quanto è stato ricostruito.

Potremmo però anche domandarci: che cosa il Signore ci invita a costruire oggi nella vita, e soprattutto: su che cosa ci chiama a costruire la nostra vita? Vorrei proporvi, nel cercare di rispondere a questa domanda, tre basi stabili su cui possiamo edificare e riedificare la vita cristiana, senza stancarci.

Il primo fondamento è la memoria. Una grazia da chiedere è quella di saper recuperare la memoria, la memoria di quello che il Signore ha compiuto in noi e per noi: richiamare alla mente che, come dice il Vangelo odierno, Egli non ci ha dimenticato, ma «si è ricordato» (Lc 1,72) di noi: ci ha scelti, amati, chiamati e perdonati; ci sono stati grandi avvenimenti nella nostra personale storia di amore con Lui, che vanno ravvivati con la mente e con il cuore. Ma c’è anche un’altra memoria da custodire: la memoria del popolo. I popoli hanno infatti una memoria, come le persone. E la memoria del vostro popolo è molto antica e preziosa. Nelle vostre voci risuonano quelle dei sapienti santi del passato; nelle vostre parole c’è l’eco di chi ha creato il vostro alfabeto allo scopo di annunciare la Parola di Dio; nei vostri canti si fondono i gemiti e le gioie della vostra storia. Pensando a tutto questo potete riconoscere certamente la presenza di Dio: Egli non vi ha lasciati soli. Anche fra tremende avversità, potremmo dire con il Vangelo di oggi, il Signore ha visitato il vostro popolo (cfr Lc 1,68): si è ricordato della vostra fedeltà al Vangelo, della primizia della vostra fede, di tutti coloro che hanno testimoniato, anche a costo del sangue, che l’amore di Dio vale più della vita (cfr Sal 63,4). È bello per voi poter ricordare con gratitudine che la fede cristiana è diventata il respiro del vostro popolo e il cuore della sua memoria.

La fede è anche la speranza per il vostro avvenire, la luce nel cammino della vita, ed è il secondo fondamento di cui vorrei parlarvi. C’è sempre un pericolo, che può far sbiadire la luce della fede: è la tentazione di ridurla a qualcosa del passato, a qualcosa di importante ma che appartiene ad altri tempi, come se la fede fosse un bel libro di miniature da conservare in un museo. Tuttavia, se rinchiusa negli archivi della storia, la fede perde la sua forza trasformante, la sua bellezza vivace, la sua positiva apertura verso tutti. La fede, invece, nasce e rinasce dall’incontro vivificante con Gesù, dall’esperienza della sua misericordia che dà luce a tutte le situazioni della vita. Ci farà bene ravvivare ogni giorno questo incontro vivo con il Signore. Ci farà bene leggere la Parola di Dio e aprirci nella preghiera silenziosa al suo amore. Ci farà bene lasciare che l’incontro con la tenerezza del Signore accenda la gioia nel cuore: una gioia più grande della tristezza, una gioia che resiste anche di fronte al dolore, trasformandosi in pace. Tutto questo rinnova la vita, la rende libera e docile alle sorprese, pronta e disponibile per il Signore e per gli altri. Può succedere anche che Gesù chiami a seguirlo più da vicino, a donare la vita a Lui e ai fratelli: quando invita, specialmente voi giovani, non abbiate paura, ditegli di “sì”! Egli ci conosce, ci ama davvero, e desidera liberare il cuore dai pesi del timore e dell’orgoglio. Facendo spazio a Lui, diventiamo capaci di irradiare amore. Potrete in questo modo dar seguito alla vostra grande storia di evangelizzazione, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno in questi tempi tribolati, che sono però anche i tempi della misericordia.

Il terzo fondamento, dopo la memoria e la fede, è proprio l’amore misericordioso: è su questa roccia, sulla roccia dell’amore ricevuto da Dio e offerto al prossimo, che si basa la vita del discepolo di Gesù. Ed è vivendo la carità che il volto della Chiesa ringiovanisce e diventa attraente. L’amore concreto è il biglietto da visita del cristiano: altri modi di presentarsi possono essere fuorvianti e persino inutili, perché da questo tutti sapranno che siamo suoi discepoli: se abbiamo amore gli uni per gli altri (cfr Gv13,35). Siamo chiamati anzitutto a costruire e ricostruire vie di comunione, senza mai stancarci, a edificare ponti di unione e a superare le barriere di separazione. Che i credenti diano sempre l’esempio, collaborando tra di loro nel rispetto reciproco e nel dialogo, sapendo che «l’unica competizione possibile tra i discepoli del Signore è quella di verificare chi è in grado di offrire l’amore più grande!» (Giovanni Paolo II, Omelia, 27 settembre 2001: Insegnamenti XXIV,2 [2001], 478).

Il profeta Isaia, nella prima lettura, ci ha ricordato che lo spirito del Signore è sempre con chi porta il lieto annuncio ai miseri, fascia le piaghe dei cuori spezzati e consola gli afflitti (cfr 61,1-2). Dio dimora nel cuore di chi ama; Dio abita dove si ama, specialmente dove ci si prende cura, con coraggio e compassione, dei deboli e dei poveri. C’è tanto bisogno di questo: c’è bisogno di cristiani che non si lascino abbattere dalle fatiche e non si scoraggino per le avversità, ma siano disponibili e aperti, pronti a servire; c’è bisogno di uomini di buona volontà, che di fatto e non solo a parole aiutino i fratelli e le sorelle in difficoltà; c’è bisogno di società più giuste, nelle quali ciascuno possa avere una vita dignitosa e in primo luogo un lavoro equamente retribuito.

Potremmo però chiederci: come si può diventare misericordiosi, con tutti i difetti e le miserie che ciascuno vede dentro di sé e attorno a sé? Vorrei ispirarmi a un esempio concreto, ad un grande araldo della misericordia divina, che ho voluto proporre all’attenzione di tutti annoverandolo tra i Dottori della Chiesa universale: san Gregorio di Narek, parola e voce dell’Armenia. È difficile trovare qualcuno pari a lui nello scandagliare le abissali miserie che si possono annidare nel cuore dell’uomo. Egli, però, ha sempre posto in dialogo le miserie umane e la misericordia di Dio, elevando un’accorata supplica fatta di lacrime e fiducia al Signore, «datore dei doni, bontà per natura […], voce di consolazione, notizia di conforto, slancio di gioia, […] tenerezza impareggiabile, misericordia traboccante, […] bacio salvifico» (Libro delle lamentazioni, 3,1), nella certezza che «mai è adombrata dalle tenebre della rabbia la luce della [sua] misericordia» (ibid., 16,1). Gregorio di Narek è un maestro di vita, perché ci insegna che è anzitutto importante riconoscerci bisognosi di misericordia e poi, di fronte alle miserie e alle ferite che percepiamo, non chiuderci in noi stessi, ma aprirci con sincerità e fiducia al Signore, «Dio vicino, tenerezza di bontà» (ibid., 17,2), «pieno d’amore per l’uomo, […] fuoco che consuma la sterpaglia del peccato» (ibid., 16,2).

Con le sue parole vorrei infine invocare la misericordia divina e il dono di non stancarci mai di amare: Spirito Santo, «potente protettore, intercessore e pacificatore, noi ti rivolgiamo le nostre suppliche […] Accordaci la grazia di incoraggiarci alla carità e alle opere buone […] Spirito di dolcezza, di compassione, di amore per l’uomo e di misericordia, […] Tu che non sei altro che misericordia, […] abbi pietà di noi, Signore nostro Dio, secondo la tua grande misericordia» (Inno di Pentecoste).


Al termine di questa Celebrazione desidero esprimere viva gratitudine al Catholicos Karekin II e all’Arcivescovo Minassian per le cortesi parole che mi hanno rivolto, come pure al Patriarca Ghabroyan e ai Vescovi presenti, ai sacerdoti e alle Autorità che ci hanno accolto.

Ringrazio tutti voi che avete partecipato, giungendo a Gyumri anche da diverse regioni e dalla vicina Georgia. Vorrei in particolare salutare chi, con tanta generosità e amore concreto, aiuta quanti si trovano nel bisogno. Penso soprattutto all’ospedale di Ashotsk, inaugurato venticinque anni fa e conosciuto come l’“Ospedale del Papa”: nato dal cuore di san Giovanni Paolo II, è ancora una presenza tanto importante e vicina a chi soffre; penso alle opere portate avanti dalla comunità cattolica locale, dalle Suore Armene dell’Immacolata Concezione e delle Missionarie della Carità della beata Madre Teresa di Calcutta.

La Vergine Maria, nostra Madre, vi accompagni sempre e guidi i passi di tutti sulla via della fraternità e della pace.

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Vedi anche i precedenti post:

“Le diaconesse? È più urgente cambiare la struttura piramidale nella comunità di fedeli”

"Per me la funzione della donna non è tanto importante quanto il pensiero della donna: la donna pensa in un altro modo rispetto a noi uomini. E non si può prendere una buona decisione, buona e giusta, senza sentire le donne. ... è più importante il modo di capire, di pensare, di vedere le cose delle donne che la funzionalità della donna. E poi ripeto quello che dico sempre: la Chiesa è donna, è “la” Chiesa. E non è una donna “zitella”, è una donna sposata con il Figlio di Dio, il suo Sposo è Gesù Cristo. (Papa Francesco Conferenza stampa volo rientro dal viaggio in Armenia)


Intervista con la teologa morale 
suor Antonietta Potente 
sulla spiritualità e il ruolo delle donne nella Chiesa



«Non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità». A pensarla così è una donna. La teologa morale suor Antonietta Potente, domenicana di 57 anni, ora radicata a Torino; ha vissuto diciotto anni in Bolivia dove ha sperimentato una forma vita comunitaria con i contadini indigeni. Docente di Teologia morale presso l’Angelicum di Roma, nella Facoltà teologica dell’Italia centrale a Firenze e nell’Università Cattolica di Cochabamba (Bolivia), è stata anche membro della Conferenza latinoamericana dei Religiosi e collabora con l’Istituto ecumenico di Teologia andina di La Paz. L’abbiamo intervistata a margine della conferenza sulle donne nelle Scritture che ha tenuto durante la presentazione del «Bilancio sociale 2015» dell’associazione Orizzonti-Maidan, gestita dai Camilliani di Torino.

Secondo Lei le donne potrebbero avere un ruolo maggiore nella Chiesa con il magistero di papa Francesco? 

«Ammetyo che papa Francesco ha dato un’altra chiave di lettura su tutto, e anche riscatta un po’ questo ignorare le donne per molto, molto tempo. Non dico per secoli perché credo che nel I secolo erano molto più protagoniste di quanto lo siamo oggi. Però certamente poi siamo cadute nell’ombra, non è che non ci venga dato un posto, ma è un posto come quello di Sara che resta nella tenda e guarda da lì. Io credo che in questo momento, come sta succedendo riguardo alle coppie separate, alla questione gay, alle unioni civili, anche su questo sta avvenendo qualcosa. A me sinceramente quello che inquieta un po’ è che comunque noi donne dobbiamo aspettare che gli uomini si mettano d’accordo per decidere se siamo ammesse o non siamo ammesse». 

Che cosa pensa del dibattito che si è creato intorno alla possibilità di aprire alle diaconesse? 

«La questione delle diaconesse, che è un ruolo, mi sembra un po’ come le quote rose dei partiti: vediamo qual è il partito che ha più donne. Quello che invece si dovrebbe fare e riconoscere è questa grande presenza alternativa, questa lettura alternativa che noi facciamo della storia da secoli. E anche un po’ lasciarsi criticare da noi donne. Fino a quando ci si circonderà di donne che sanno solo dare ragione, non cambierà nulla. Nella Chiesa serve davvero una certa critica, perché non è in gioco solo il nostro essere ammesse o non ammesse come diaconesse o sacerdotesse, ma è in gioco, a mio avviso, il cambio strutturale nella comunità di credenti. Da una piramide alla circolarità, perché, nonostante papa Francesco, la struttura piramidale esiste ancora». 

Anche quel clericalismo tante volte denunciato da papa Francesco… 

«Non va bene questo sentirsi pastori investiti di qualcosa di molto più grande di quello che è l’investitura quotidiana di tante donne e anche uomini. E poi, credo che se si ammettessero le donne al sacerdozio bisognerebbe anche ammettere tutti i laici che già si riconoscono in una vocazione di questo tipo. Però se la Chiesa continua con questa struttura piramidale, se le comunità continuano con questa struttura, mi sembra difficile. Sia riguardo alle donne, all’essere presenti nell’ambito della formazione oppure a esercitare determinati ministeri. Penso che il grande ostacolo sia questa grande struttura, che ormai ha secoli». 
...



martedì 28 giugno 2016

Cerimonia per il 65° anniversario di sacerdozio del Papa emerito Benedetto XVI. (foto, testi e video)

 28 giugno 2016 

Questa mattina nella Sala Clementina in Vaticano, si è tenuta una cerimonia solenne per il 65° anniversario di sacerdozio del Papa emerito Benedetto XVI. 

La piccola festa è sobria, come ha voluto Ratzinger e come aveva preannunciato domenica 26 giugno lo stesso Papa Francesco dialogando con i giornalisti sul volo di ritorno da Yerevan, smentendo la teoria secondo la quale esisterebbe una sorta di ministero petrino «condiviso» e i Papi, invece di uno, fossero due.

Francesco ha abbracciato Benedetto, seduto su un lato giù dalla pedana, e poi ancora dopo aver pronunciato il suo discorso. Il coro della Cappella Sistina ha eseguito il canto «in insigni die solemnitatis vestrae».

Segue il testo integrale del discorso di Papa Francesco

Santità,

oggi festeggiamo la storia di una chiamata iniziata sessantacinque anni fa con la Sua Ordinazione sacerdotale, avvenuta nella Cattedrale di Freising il 29 giugno 1951. Ma quale è la nota di fondo che percorre questa lunga storia e che da quel primo inizio sino a oggi la domina sempre più?

In una delle tante belle pagine che Lei dedica al sacerdozio sottolinea come, nell’ora della chiamata definitiva di Simone, Gesù, guardandolo, in fondo gli chiede una cosa sola: “Mi ami?”. Quanto è bello e vero questo! Perché è qui, Lei ci dice, in quel “mi ami?” che il Signore fonda il pascere, perché solo se c’è l’amore per il Signore Lui può pascere attraverso di noi: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo” (cfr Gv 21,15-19). È questa la nota che domina una vita intera spesa nel servizio sacerdotale e della teologia, che Lei non a caso ha definito come “la ricerca dell’amato”; è questo che Lei ha sempre testimoniato e testimonia ancora oggi: che la cosa decisiva nelle nostre giornate — di sole o di pioggia —, quella solo con la quale viene anche tutto il resto, è che il Signore sia veramente presente, che lo desideriamo, che interiormente siamo vicini a Lui, che Lo amiamo, che davvero crediamo profondamente in Lui e credendo Lo amiamo veramente. È questo amare che veramente ci riempie il cuore, questo credere è quello che ci fa camminare sicuri e tranquilli sulle acque, anche in mezzo alla tempesta, proprio come accadde a Pietro. Questo amare e questo credere è quello che ci permette di guardare al futuro non con paura o nostalgia, ma con letizia, anche negli anni ormai avanzati della nostra vita.

E così, proprio vivendo e testimoniando oggi in modo tanto intenso e luminoso quest'unica cosa veramente decisiva — avere lo sguardo e il cuore rivolto a Dio — Lei, Santità, continua a servire la Chiesa, non smette di contribuire veramente con vigore e sapienza alla sua crescita; e lo fa da quel piccolo Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano che si rivela in tal modo essere tutt’altro che uno di quegli angolini dimenticati nei quali la cultura dello scarto di oggi tende a relegare le persone quando, con l’età, le loro forze vengono meno. È tutto il contrario. E questo permetta che lo dica con forza il Suo Successore che ha scelto di chiamarsi Francesco! Perché il cammino spirituale di san Francesco iniziò a San Damiano, ma il vero luogo amato, il cuore pulsante dell’Ordine, lì dove lo fondò e dove infine rese la sua vita a Dio fu la Porziuncola, la “piccola porzione”, l’angolino presso la Madre della Chiesa; presso Maria che, per la sua fede così salda e per il suo vivere così interamente dell’amore e nell’amore con il Signore, tutte le generazioni chiameranno beata. Così, la Provvidenza ha voluto che Lei, caro Confratello, giungesse in un luogo per così dire propriamente “francescano”, dal quale promana una tranquillità, una pace, una forza, una fiducia, una maturità, una fede, una dedizione e una fedeltà che mi fanno tanto bene e danno tanta forza a me e a tutta la Chiesa. E mi permetto anche di dire che da Lei viene un sano e gioioso senso dell’umorismo.

L’augurio con il quale desidero concludere è perciò un augurio che rivolgo a Lei e insieme a tutti noi e alla Chiesa intera: che Lei, Santità, possa continuare a sentire la mano del Dio misericordioso che La sorregge, che possa sperimentare e testimoniarci l’amore di Dio; che, con Pietro e Paolo, possa continuare a esultare di grande gioia mentre cammina verso la meta della fede (cfr 1 Pt 1,8-9; 2 Tm 4,6-8)!

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Dopo il Papa, hanno preso la parola il cardinale Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della congregazione per la Dottrina della fede e il decano del collegio cardinalizio, il cardinale Angelo Sodano. Müller ha offerto a Benedetto il libro «Die Liebe Gottes Lehren und Lernen - Insegnare e imparare l’Amore di Dio». 

Santo Padre,
è un grande onore poter partecipare a questo momento di festa che Lei ha voluto per la lieta occasione dei sessantacinque anni di ordinazione sacerdotale del Papa Emerito Benedetto XVI. Qualche settimana fa, per il Giubileo dei Sacerdoti e dei Seminaristi, Lei stesso ha messo al centro della nostra riflessione l’essenza della missione sacerdotale: lasciarsi ricreare il cuore dalla misericordia di Dio, così che noi stessi possiamo aiutare gli uomini a lasciarsi plasmare il cuore da Lui.
E citava il grande scrittore francese George Bernanos, il quale nel suo romanzo Diario di un curato di campagna, ha indicato nella “gioia” l’immenso dono che la Chiesa è chiamata ad offrire al mondo: anzitutto la gioia dell’annuncio che i nostri peccati sono già attesi dal perdono di Dio! “Annuncio” e “gioia” sono parole che stanno al cuore del Vangelo, e sono anche due note proprie tanto del Suo Magistero, quanto di quello del Suo Predecessore.
Caro Papa Emerito...


Venerato e caro Papa Francesco, 
oggi in occasione del 65° di sacerdozio del Suo amato Predecessore, il Papa emerito Benedetto XVI, Ella ha voluto rendergli questo doveroso omaggio a nome di tutta la Santa Chiesa, che ha goduto per 65 anni del suo ministero pastorale, prima come Presbitero e successivamente come Vescovo nella sede di München e Freising e poi come Vescovo di Roma, “mater et caput omnium ecclesiarum”.
Santo Padre, permetta ora anche a me di presentare al caro Festeggiato l’omaggio dei Confratelli Cardinali e Vescovi, mentre mi sgorgano dal cuore le parole del Salmo 133: “Ecce quam bonum et quam jucundum habitare fratres in unum” (Salmo 133)! Sì, in questo momento noi sperimentiamo un clima di grande letizia spirituale e di intensa fraternità, nel vincolo comune di servizio alla Santa Chiesa di Cristo.
Caro e venerato Papa emerito...

Leggi l'intervento del Card. Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio: "L’ora della gratitudine"

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Alla fine Benedetto XVI si è alzato e ha pronunciato poche lucide parole a braccio. 

Questo il testo integrale delle sue parole:

Santo Padre, cari fratelli,

65 anni fa, un fratello ordinato con me ha deciso di scrivere sulla immaginetta di ricordo della prima Messa soltanto, eccetto il nome e le date, una parola, in greco: “Efharistomen”, convinto che con questa parola, nelle sue tante dimensioni, è già detto tutto quanto si possa dire in questo momento. “Efharistomen” dice un grazie umano, grazie a tutti. Grazie soprattutto a Lei, Santo Padre: la Sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente più che nei Giardini Vaticani, con la bellezza, la Sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto. Grazie anche della parola di ringraziamento, per tutto. E speriamo che Lei potrà andare avanti con noi tutti con questa via della Misericordia Divina, mostrando la strada di Gesù, a Gesù, a Dio.

Grazie pure a Lei, eminenza, per le Sue parole che hanno veramente toccato il cuore: “Cor ad cor loquitur”. Lei ha reso presente sia l’ora della mia ordinazione sacerdotale, sia anche la mia visita nel 2006 a Freising, dove ho rivissuto questo. Posso solo dire che così, con queste parole che ha interpretato l’essenziale della mia visione del sacerdozio, del mio operare. Le sono grato per il legame di amicizia che fino adesso continua da tanto tempo, da tetto a tetto: è quasi presente e tangibile.

Grazie, cardinale Müller, per il Suo lavoro che fa per la presentazione dei miei testi sul sacerdozio, nei quali cerco di aiutare anche i confratelli a entrare sempre di nuovo nel mistero che il Signore si dà nelle nostre mani. “Efharistomen”: in quel momento l’amico Berger voleva accennare non solo alla dimensione del ringraziamento umano, ma naturalmente alla parola più profonda che si nasconde, che appare nella Liturgia, nella Scrittura, nelle Parole: “Gratias agens benedixit fregit deditque”. 
“Efharistomen” ci manda a quella realtà di ringraziamento, a quella nuova dimensione che Cristo ha dato. Lui ha trasformato in grazie, così in benedizione, la Croce, la sofferenza, tutto il male del mondo. E così fondamentalmente ha transustanziato la vita e il mondo e ci ha dato e ci dà ogni giorno il pane della vera vita, che supera il mondo grazie alla forza del Suo amore.

Alla fine, vogliamo inserirci in questo “grazie” del Signore e così ricevere realmente la novità della vita e aiutare alla transustanziazione del mondo: che sia un mondo non di morte, ma di vita; un mondo nel quale l’amore ha vinto la morte.

Grazie a tutti voi. Il Signore ci benedica tutti.

Grazie, Santo Padre.


Al termine, un terzo abbraccio tra il Papa e l’emerito. Poi, mentre il coro ha intonato il caro «Sicut cervus», prima i cardinali e poi tutti i presenti hanno salutato e reso omaggio prima a Francesco e poi a Benedetto.


Guarda il video integrale



La storia di Suor Cecilia María che ha chiuso gli occhi e con un sorriso radioso ha raggiunto lo Sposo...



Dov'è, o morte, la tua vittoria?
Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? 
(1Cor. 15,55)




BUENOS AIRES, 24 giugno 2016 / 13:00.
Suor Cecilia María è andata in cielo dopo una dura lotta contro il cancro. 

Migliaia hanno condiviso nelle reti social le immagini della sua agonia, un tempo nel quale non ha perso mai la pace né l'allegria, sostenuta anche dalla sua numerosa famiglia e negli ultimi mesi da due suore (una sua sorella) che con lei e come lei, nonostante il dolore, erano sempre sorridenti...





Anche Papa Francesco da Roma le aveva assicurato la sua preghiera in un messaggio vocale in cui le disse che sapeva della sua offerta e che l'amava molto.

Si laureò in infermieria, a 26 anni di età fece i suoi primi voti come carmelitana scalza, nell'anno 2003 fece la sua professione perpetua. 
Sei mesi fa le diagnosticarono un cancro alla lingua e la malattia fece metastasi polmonare. Muore all’alba di mercoledì 22. Aveva 43 anni. 

Ha vissuto nel Monastero di Santa Teresa e San Jose, Santa Fe, Argentina, dedita alla preghiera e alla vita contemplativa, suonava il violino ed era conosciuta per la sua dolcezza e il sorriso permanente.

Nelle ultime settimane la sua malattia si è aggravata ed ha dovuto essere ospedalizzata. 

Dal suo letto non ha smesso di pregare ed offrire le sue sofferenze con la certezza che il suo incontro con Dio era vicino.

Su un foglietto di carta ha scritto il suo ultimo desiderio: 
Stavo pensando come volevo che fosse la mia funzione funebre. 
Prima un po’ di “forte di preghiera” e poi una grande festa per tutti. 
Non dimenticare di pregare, ma anche per festeggiare! 

La sua testimonianza e le foto dei suoi ultimi giorni sono eloquenti e sono ormai tante le persone che testimoniano sui social network come l'agonia di Suor Cecilia ha toccato i loro cuori.

Il Carmelo di Santa Fe ha comunicato la morte di suor Cecilia con un testo breve ma profondo inviato ai membri dell’Ordine e a tutti i suoi amici:

Cari fratelli, sorelle e amici:

Gesù! Solo poche righe per avvisarvi che la nostra amatissima sorella si è addormentata dolcemente nel Signore dopo una malattia dolorosissima sopportata sempre con gioia e dedizione al suo Sposo Divino. Vi inviamo tutto il nostro affetto per il sostegno e la preghiera con cui ci avete accompagnate durante questo periodo così doloroso ma allo stesso tempo tanto meraviglioso. 
Crediamo che sia volata direttamente in Cielo, ma vi chiediamo ugualmente di non smettere di ricordarla nelle vostre preghiere, e lei dal cielo vi ricompenserà. 
Un grande abbraccio dalle sue sorelle di Santa Fe.


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