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sabato 31 dicembre 2016

"Scoprire un Dio dalle grandi braccia e dal cuore di luce" di p. Ermes Ronchi - Maria santissima Madre di Dio

Scoprire un Dio dalle grandi braccia e dal cuore di luce

Commento
Maria santissima Madre di Dio

Letture:  Numeri 6, 22-27; Salmo 66; Galati 4,4-7; Luca 2,16-21

«In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo».

Otto giorni dopo Natale, lo stesso racconto di quella notte: Natale non è facile da capire, è una lenta conquista. Ci disorienta: per la nascita, quella nascita, che divenne nella notte un passare di voci che raccontavano una storia incredibile. Da stropicciarsi gli occhi. È venuto il Messia ed è nel giro di poche fasce, nella ruvida paglia di una mangiatoia. Chi va a cercarlo nei sacri palazzi non lo trova. 
"Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette dai pastori". Riscoprire lo stupore della fede. Lasciarci incantare almeno da una parola del Signore, stupirci ancora della mangiatoia e della Croce, di questo mistero di un Dio che sa di stelle e di latte, di infinito e di casa.
Dimentichiamo tutta la liturgia senz'anima che presiede a questi giorni: regali, botti, auguri, sms clonati, luci, per conservare ciò che vale davvero: la capacità di sorprenderci per la speranza indomita di Dio nell'uomo e in questa nostra storia barbara e magnifica, per il suo ricominciare dagli ultimi della fila.
E impariamo da Maria, che "custodiva tutte queste cose meditandole nel suo cuore", da lei, che salvaguarda come in uno scrigno emozioni e domande, angeli e stalla, un bambino "caduto da una stella fra le sue braccia e che cerca l'infinito perduto e lo trova nel suo petto" (M. Marcolini); da lei che medita nel cuore fatti e parole, fino a che non si dipani il filo d'oro che tutto legherà insieme, da lei impariamo a prenderci del tempo per aver cura dei nostri sogni. "Con il cuore", con la forma più alta di intelligenza, quella che mette insieme pensiero e amore. 
E impariamo il Natale anche dai pastori, che non ce la fanno a trattenere per sé la gioia e lo stupore, come non si può trattenere il respiro, ma ritornano cantando, e contagiano di sorrisi chi li incontra, dicendo a tutti: è nato l'Amore!
In questo giorno di auguri, le prime parole che la Bibbia ci rivolge sono: Il Signore parlò a Mosè, ad Aronne, ai suoi figli e disse: Voi benedirete i vostri fratelli. Per prima cosa, che lo meritino o no, voi benedirete.
Dio ci chiede di imparare a benedire: uomini e storie, il blu del cielo e il giro degli anni, il cuore dell'uomo e il volto di Dio. Se non impara a benedire, l'uomo non potrà mai essere felice.
Benedire è invocare dal cielo una forza che faccia crescere la vita, e ripartire e risorgere; significa cercare, trovare, proclamare il bene che c'è in ogni fratello. E continua: Il Signore faccia brillare per te il suo volto. Scopri che Dio è luminoso, ritrova nell'anno che viene un Dio solare, ricco non di troni, di leggi, di dichiarazioni, ma il cui più vero tabernacolo è un volto luminoso. Scopri un Dio dalle grandi braccia e dal cuore di luce.


Te deum del cuore - L'anno che va, il tempo che viene...


Te deum del cuore

L'anno che va, 
il tempo che viene
di Davide Rondoni


E ora che l’anno finisce, il cuore deve decidere da che parte stare. Il cuore, che è la sede delle decisioni che davvero segnano l’esistenza, come dice la Bibbia. 
E il nostro cuore, adesso che finisce un anno duro e pie­no di fatiche, deve decidere: lamento o gra­titudine? 
È sempre così. Di fronte a un anno che passa, come di fronte al viso dei propri figli, o delle persone che ti trovi accanto. Hai mille motivi per lamentarti, cuore nostro. Mil­le motivi per dare voce alle ferite. Alle delu­sioni. Ai torti subiti. Mille motivi per far par­lare la lingua amara della rivendicazione. O la lingua stanca dell’avvilimento.

Molte notizie che anche oggi troviamo sui giornali farebbero salire parole dure dal cuo­re. Ma come c’è la durezza della pena, c’è an­che la durezza della gioia. La resistenza, la forza della gratitudine. Quella che proviamo per cose che magari sui giornali non ci fini­scono. La gratitudine per le cose da niente che costellano la nostra vita. Per il respiro che ancora ci viene accordato, e il riso e anche per il pianto con cui conosciamo il dolore e l’amore. Le cose che non fanno notizia, co­me il sorriso di un figlio, l’occhiata della per­sona che amiamo, il suo voltarsi quando la salutiamo. Quelle cose da niente che non fan­no notizia, ma che ci suggeriscono una gra­titudine invincibile. E noi vogliamo scegliere di rendere grazie per queste cose da niente. Per la fede dei semplici, papi nel fulgore del loro ministe­ro o ammalati nella penombra della loro of­ferta. Vogliamo ringraziare per tutte le ma­dri che, camminando lavorando soffrendo, non perdono la speranza. E custodiscono l’amore. Per tutti quelli che non fanno no­tizia e fanno andare il mondo, mettendo cu­ra e pazienza in lavori senza onori appa­renti. Gratitudine per la bellezza spavento­sa e dolce di questo posto chiamato Italia, edificato dal genio, dalla fede e dalla opero­sità dei nostri padri, sotto i cui cieli abitia­mo e vediamo panorami per cui vale la pe­na essere venuti al mondo. Il nostro cuore decide di ringraziare, in questa fine d’anno. Per le cose che ci hanno corretto. Per quel­le che, pure facendoci soffrire, ci hanno le­gato di più a ciò che vale. E ringraziare per le cose da niente, i ‘buon­giorno’ scambiati per le scale, i ‘se hai biso­gno di una mano, ci sono’ che ci hanno det­to anche con gesti silenziosi. Vogliamo ren­dere grazie per la benedizione dei bambini nostri e per quelli degli altri. Per i loro visi do­ve tutto reinizia. E per la pazienza dei nostri anziani, che onorano il tempo senza sentir­lo come una ingiustizia, ma come un chiari­mento. Vogliamo ringraziare per la pazienza preziosissima dei sofferenti nel corpo, nella mente. Per chi è restato senza lavoro, ma non senza dignità. Per le cose che non fanno mai notizia, come la cura e l’amicizia offerta da tanti a chi è solo. Per il mare di bene che con onde silenziose sostiene il nostro viaggio.

Ora che l’anno finisce strapperemo il cuore dalle mani del demonio lamentoso che vor­rebbe non farci vedere come i cuori di tutti cercano il bene. Ora che finisce l’anno con tutte le sue ferite e le sconfitte e le perdite, rin­grazieremo per tutti i doni, e per il segreto bene che si nasconde anche nel patimento se una mano ci passa sugli occhi come ai bambini. Ringrazieremo per tutti gli abbrac­ci silenziosi. Per i baci di amicizia e di amo­re scambiati. Per le cose da niente che non fanno notizia ma hanno fatto la vita e la spe­ranza per questo anno che finisce. E ringra­zieremo per il dono più misterioso di tutti, la fede. Per le mani che ce lo hanno offerto, per i volti che lo hanno confermato in mezzo al­le tenebre dell’anno. Per i dolci amici che ci hanno parlato di Lui, Signore buono dell’an­no che va e dell’istante che viene.
(fonte testo: Davide Rondoni)


NATALE 2016, Napoli - "Questo Natale dovrebbe servire a capire che se andiamo avanti così é la morte che ci attende. Dobbiamo cambiare. Siamo invitati a vivere e non a morire" p. Alex Zanotelli (VIDEO)

NATALE 2016, Napoli 
 "Questo Natale dovrebbe servire  a capire 
che se andiamo avanti così é la morte che ci attende. 
Dobbiamo cambiare.
 Siamo invitati a vivere e non a morire"
 p. Alex Zanotelli,
missionario comboniano
 (VIDEO)



Un Natale povero, celebrato alla Stazione Ferroviaria di Napoli (Piazza Garibaldi) con un centinaio di persone tra cui senza fissa dimora e migranti. Infatti la Stazione è un punto di riferimento per i senza fissa dimora e i profughi. Quale luogo migliore per celebrare la nascita di quel povero Gesù che nasce per strada da due poveri migranti, Giuseppe e Maria, in cammino, come oggi milioni e milioni di persone in fuga da guerre e da fame!



Quello che sta accadendo é di una gravità estrema, viviamo dentro un sistema di morte.
Un sistema che permette ai 62 uomini più ricchi al mondo di avere l'equivalente di 3 miliardi e 600 milioni di persone ... e permette all'1% delle popolazione mondiale, 70 milioni di persone, di avere più dell 99% delle persone, Questo sistema impoverisce i molti e arricchisce i pochi: affama e impoverisce. E' assurdo come sistema, per le profonde diseguaglianze che crea. ...
Questi 70 milioni per andare avanti cosi a comandare hanno bisogno di armi potentissime, ma come oggi siamo arrivati alla follia di una tale potenza di armamenti. Per questo si fanno le guerre, per difendere gli interessi vitali ovunque minacciati. Ecco perchè abbiamo fatto la guerra in Iraq, costruita tutta su bugie, che è la causa di tutto questo disastro, che vediamo anche dell'Isis  ...
Questo sistema economico-finanziario-militarizzato  sta  facendo saltare pure l'ecosistema ...
Bisogna  cambiare sistema. Per fare questo bisogna cambiare il cuore dell'uomo, ha ragione Papa francesco quando parla di crisi antropologica ...
Questo Natale dovrebbe servire che se andiamo avanti così é la morte che ci attende. Dobbiamo cambiare. Siamo invitati a vivere e non a morire ( p. Alex Zanotelli, missionario comboniano)

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NATALE 2016 - "Stupiamoci di Dio che si fa uomo...Lui solo può ridestare la speranza della vera felicità e la gioia della grandezza della nostra vita." don Franco Montenegro, cardinale e arcivescovo di Agrigento (Testo e video)

NATALE 2016 
"Stupiamoci di Dio che si fa uomo ...
Lui solo può ridestare 
la speranza della vera felicità 
e la gioia della grandezza 
della nostra vita."
 don Franco Montenegro, 
cardinale e arcivescovo di Agrigento


”Nulla è più bello al mondo del sorgere del sole ...

ma noi ci siamo abituati a tutto. ... 
Vero Natale a tutti"  

"Nulla è più bello al mondo del sorgere del sole" questa frase che ho voluto stampare su una immagine di auguri appartiene ad un immigrato. Noi ormai ci siamo abituati a tutto, questo immigrato dopo una notte passata in mare si sentì rivivere. E credo che é la stessa esperienza che facciamo noi, ci troviamo in un mare che tante volte è molto agitato e abbiamo paura di andare a fondo. ma poi c'è il sole che sorge. E credere insieme al sole che sorge non é sognare inutilmente. E', come diceva Giorgio La Pira, spingere ancora di più il sole a sorgere. 
... Se ognuno di noi riesce a fare la sua parte ecco che il sole sorgerà. Allora gli auguri di un vero Natale li faccio a questa città, la bellezza di questa terra è esorbitante e penso al contempo a tutte quelle persone che sono in difficoltà per motivi commerciali, economici, ai giovani senza speranza, agli ammalati in ospedale dico loro di credere nella forza di quel bambino. Natale deve diventare la festa degli adulti perché è un Dio che dà fiducia, è un Dio con cui avere a che fare, è un Dio che mi fa sentire importante e prezioso. Ecco perché a Natale nessuno può dire la mia vita è inutile e se per caso non si dovesse credere in Dio approfittiamo di questo giorno per credere alla vita. Buon Natale, anzi Vero Natale per tutti”.

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«Stupiamoci di Dio che si fa uomo» 
gli auguri dell’arcivescovo card. Francesco Montenegro

Il Natale torna regolare col suo notorio rituale fatto di commoventi suoni e canti, di cui, purtroppo, si è impadronita la pubblicità, tanto da collegarli ai vari prodotti e spingerci – giocando coi nostri sentimenti – al loro acquisto, contribuendo così a rubare il posto al protagonista principale, vero motivo della festa: Gesù.

Una volta, infatti, ascoltando “Tu scendi dalle stelle” il pensiero andava immediatamente al Bambino di Betlemme, oggi invece si associano la musica e le parole dell’inno a un panettone o a una bottiglia di spumante. Senza Gesù! Rituale fatto di magiche luci lampeggianti, ammiccanti, quasi ipnotiche che per quanto riempiano di colori le case, le vetrine, le vie, non riescono a sostituirsi ai colori veri della vita. Tanto è vero che, una volta spente, si resta col magone e tutto ritorna come prima, come se nulla fosse accaduto. Come se Gesù non fosse venuto e non fosse tra noi! Rituale fatto di pacchi, pacchetti, di fretta, di saluti gridati, di strette di mano, di auguri sussurrati ma, il più delle volte, tutto fatto formalmente perciò vuoto di significato perché, ognuno affannato e distratto dalle mille cose da fare, quando dice “buon Natale”, non riesce a fare arrivare l’augurio nel cuore dell’altro o, chi lo riceve, a trovare il tempo e lo spazio per depositarlo al posto giusto.

Ma dire buon Natale non significa fare posto a Gesù nella propria vita? Se Natale é questo, é allora solo una bella e dolce fiaba, niente più. Ma se è solo una favola perché disturbare Dio, o fingere di farGli ancora un piccolo posto per questa occasione? Anche nelle nostre chiese, impegnati e preoccupati a realizzare delle “belle” scenografie, interne ed esterne, preferendole alla ricchezza e alla bellezza della liturgia, al piccolo Gesù resta solo il ruolo di comparsa. Diventa sempre più l’illustre dimenticato. Infatti dalle nostre parti i presepi, viventi e no, spesso vengono presentati come mostra dei “mestieri” e momento per consumare i buoni prodotti mangerecci locali. Gli evangelisti non sono preoccupati di mostrarci i mestieri, ma di mettere al centro Gesù e dire che ormai tutto gira attorno a Lui, né hanno voluto raccontare una dolce favola, infatti il racconto della nascita non inizia con “C’era una volta”, ma, presentandoci i vari personaggi (Maria, Giuseppe, pastori, angeli, magi), intendono farci protagonisti di un mistero e stupirci facendoci scoprire che, in quella notte in cui il cielo e la terra si sono toccati, Dio è diventato uno di noi, è con noi. Il Bambino di Betlemme non mette paura e non umilia con la Sua onnipotenza ma, nella Sua imprevedibilità, si offre a noi con tenerezza e amore.

Abbiamo bisogno del Natale, perché abbiamo bisogno di Dio. Di sentirLo vicino anche se si presenta rivestito della nostra debolezza. Lui solo può ridestare la speranza della vera felicità e la gioia della grandezza della nostra vita. Siamo troppo grandi per perdere il nostro tempo con un neonato che vagisce tra le braccia della mamma? Eppure annualmente viene a ripeterci che per Lui siamo importanti e grandi e a chiederci di cancellare dalla nostra mente la sensazione dell’inutilità della nostra vita! Spogliamoci, perciò, di tutte le false proposte e aspettative di felicità, non vergogniamoci di farci piccoli, avviciniamoci a Lui e ascoltiamo la Sua proposta di vita nuova.

Questo è il mio augurio per questo Natale: essere capaci di meravigliarci di quanto in questi giorni si celebra nelle nostre Chiese. Stupirci di Dio che si fa uomo, del cielo che non è più lontano, di questa terra che Lui ha scelto come casa e che vuole bella e di tutti, che è venuto a dichiarare a ciascuno un amore unico e grande, che c’è ancora posto per la speranza, che nonostante le cadute e i tradimenti ci sono sempre due braccia aperte e un sorriso di bambino pronti ad accoglierci. Per questo motivo, anche quest’anno a tutti, credenti e uomini di buona volontà, più che BUON Natale auguro di cuore un VERO Natale.

† don Franco, arcivescovo



TUTTI POSSONO ESSERE ARTIGIANI DI PACE di Enrico Peyretti

TUTTI POSSONO ESSERE
ARTIGIANI DI PACE

Enrico Peyretti*


La nonviolenza: stile di una politica per la pace: questo messaggio di papa Francesco per la 50a Giornata mondiale della Pace mi pare che abbia l’importanza di un passo storico. Non è solo una giusta esortazione alla pace, ma indica la nonviolenza interiore, attiva e politica come via alla pace. È anche importante che in un documento di questa levatura la parola sia scritta unita (nonviolenza) e non staccata (non violenza), per esprimerne il carattere positivo e non solo negativo. Non si tratta tanto di non fare violenza, quanto di gestire i conflitti naturali della vita con forze umane costruttive. Francesco sottolinea il carattere attivo e costruttivo della linea culturale-morale-politica nonviolenta.

Nel solco tracciato dai movimenti cristiani e non
Papa Francesco assume e propone questo concetto dinamico, euristico, della nonviolenza: una ricerca, un cammino verso la pace, «l’unica e vera linea dell’umano progresso» (n. 1, citando Paolo VI). In questo documento il papa raccoglie e sviluppa decisamente lo spirito e la linea tracciata, elaborata e sperimentata da movimenti cristiani e non cristiani, prima e dopo le maggiori pronunce cattoliche nella Pacem in Terris, nel Concilio e quelle del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Cec). Un’ultima espressione importante di questo lavoro di base è l’Appello alla Chiesa Cattolica per promuovere la centralità della nonviolenza evangelica, rivolto dai partecipanti all’incontro su “Nonviolenza e Pace giusta” (Roma, 11-13 aprile 2016, convocato da Pax Christi International, dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, e da molte altre organizzazioni cattoliche internazionali), nel quale si legge anche: “Noi proponiamo che la Chiesa cattolica sviluppi e prenda in considerazione il passaggio a un approccio di Pace giusta basato sulla nonviolenza evangelica”. Francesco risponde anche a questo appello.

Il concetto di “pace giusta”, basata sulla giustizia, sta sostituendo positivamente l’antico concetto di “guerra giusta”, o meglio giustificata a determinate condizioni, che per secoli è stato centrale nella riflessione morale cristiana sulla guerra, e abusato dalla volontà di potenza di sovrani e Stati.

Da virtù personale a carattere della politica
La nonviolenza è stata a lungo vista come virtù personale, e certamente lo è, ma estranea alla politica. La cultura della pace dell’ultimo secolo compie proprio il passaggio dalla mitezza privata alla nonviolenza attiva come carattere della politica giusta. Papa Francesco si pone esattamente in questa evoluzione di cultura e di etica politica, con l’indicare la nonviolenza come “stile” di una politica che lavori per la pace, per l’umanizzazione, per il bene comune e per la stessa sopravvivenza dell’umanità.

La nonviolenza positiva si esercita nei rapporti interpersonali, sociali, internazionali. Tutti possono essere protagonisti, e non solo chi – Stati, eserciti, potenze – ha forze materiali tremende per decidere e imporre soluzioni. Persino le vittime! Dice Francesco: “Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace” (n.1). La loro forza è la forza della coscienza e dell’unità umana, che certamente ha bisogno di consapevolezza, cioè educazione e cultura, ha bisogno di coraggio, sostenuto dai cooperatori e dal clima morale, come hanno saputo fare i leaders citati dal papa nelle lotte nonviolente, più convenienti ed efficaci delle guerre e rivoluzioni armate.

L’illusione dell’uso delle armi
Nella “guerra mondiale a pezzi”, si chiede il papa, siamo oggi più consapevoli o più assuefatti? Nessun ottimismo, invece tutto l’allarme che Francesco ripete sulla guerra mondiale fatta di varie guerre in corso nel mondo, causate dalla volontà di dominio e di speculazione.

A che scopo la grande violenza militare? Permette forse di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene è scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali, enormi sofferenze e danni, ma benefici solo a pochi “signori della guerra”; dice chiaramente il papa: “Grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane (…) della grande maggioranza degli abitanti del mondo” (n. 2). “La forza delle armi è ingannevole” (n. 4).

Il pensiero della pace, da sempre (Erasmo, Kant, Simone Weil, …), denuncia la tragica illusione che le armi omicide possano ottenere vera difesa, liberazione e giustizia. Le armi comportano un alto rischio di disumanizzazione per chi le usa, sia pure come tragica necessità contro una più grave violenza. Le armi, o stabiliscono al potere nuovi violenti, o impegnano, chi si è sentito obbligato dalla situazione ad usarle, ad un lungo lavoro di purificazione. Il cammino della nonviolenza non condanna, per esempio, la Resistenza al nazifascismo, anzitutto perché fu in gran parte un’alta reazione morale, con mezzi nonviolenti, e non fu unicamente armata, e poi perché è progredita la coscienza ed è cresciuta la conoscenza dei metodi e delle esperienze nonviolente.

Nonviolenza: scelta ponderata e non assoluta
L’insegnamento di Gandhi non è assolutista. Insegnava chiaramente che alla violenza non ci si deve sottomettere, ma ci si deve opporre anche col patire (che non è subire); per non essere vili, collaboratori passivi del male, ci si deve opporre disobbedire, in casi estremi anche con la violenza. Scriveva: “L’unica cosa lecita è la nonviolenza. La violenza non può mai essere lecita (…) rispetto alla legge fatta dalla natura per l’uomo. Tuttavia, sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi, essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione. Quest’ultima non reca beneficio a nessun uomo e a nessuna donna. Nella violenza esistono molti gradi e varietà di coraggio. Ciascun uomo deve saperli giudicare da solo. Nessun altro può farlo o ha il diritto di farlo al suo posto” (“Harijan”, 27 ottobre 1946).

Dunque, al male (dominio, ingiustizia) si deve anzitutto reagire, e poi si deve scegliere tra i mezzi violenti e i mezzi nonviolenti della risposta. Ecco, dunque, che la nonviolenza è tutto l’opposto della rassegnazione passiva, è parte attiva nel rifiutare la prima violenza, ed è l’alternativa di valore morale e pratico alle reazioni violente che imitano (e così confermano) la violenza precedente.

Questa violenza non è solo quella delle armi, è molto più spesso una violenza strutturale, nelle divisioni sociali, nelle leggi discriminanti, nell’economia che non serve alla vita ma al profitto. Parlando di Madre Teresa il papa afferma che i potenti della terra, devono “riconoscere le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! – della povertà creata da loro stessi” (n. 4). C’è una violenza esercitata dalle enormi diseguaglianze che causano povertà e offesa. A questa violenza economica sistemica è giusto opporsi con metodi e mezzi nonviolenti. In questo impegno inventivo e costruttivo lavorano, con una miriade di esperienze molecolari non clamorose, i movimenti nonviolenti di base.

Gesù leader nonviolento
Anche se noi cristiani abbiamo concesso troppo, per poca fede, nel giustificare i metodi violenti, Gesù di Nazareth è un vero precursore dei leaders moderni della nonviolenza. Nel discorso della montagna sulla vera felicità, nell’amore per gli ultimi e l’indipendenza dai potenti, nel coraggio con cui morì per amore fedele alla verità e all’umanità, difendendosi unicamente con gesti e parole di verità, Gesù ha lottato contro il male con la pura forza dell’amore.

A questo livello radicale Gesù “tracciò la via della nonviolenza” (n. 3), dice Francesco. È di grande importanza che il pensiero cristiano, dopo un lungo tempo di spiritualismo rassegnato alla violenza del mondo, ritrovi proprio nel Maestro lo spirito di amore forte e resistente contro il male, senza concessioni alla fatalità della violenza in un mondo irrimediabilmente malvagio. 

Un patrimonio e un impegno per tutte le religioni
Papa Francesco rivendica alla Chiesa di essersi impegnata per la promozione della pace in molti Paesi, con strategie nonviolente “sollecitando persino gli attori più violenti in sforzi per costruire una pace giusta e duratura”, ma riconosce apertamente che “questo impegno a favore delle vittime dell’ingiustizia e della violenza non è un patrimonio esclusivo della Chiesa Cattolica, ma è proprio di molte tradizioni religiose”. La conoscenza, il dialogo e la collaborazione tra le religioni è un forte fattore di pace giusta. Francesco ribadisce con forza: “Nessuna religione è terrorista”. “Mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!” (n. 4).

Se le religioni, nelle loro espressioni autentiche, scelgono insieme lo spirito e la pratica della nonviolenza, possono dare un robusto contributo a radicare nei cuori delle persone e nelle tradizioni civili i fondamenti della pace giusta. La nonviolenza è anzitutto una qualità interiore, del cuore, continuamente da educare e rieducare. Opponiamoci a pessimismi e disperazione con questo esaltante impegno comune.

Dalla famiglia al mondo
Poiché la pace si fonda nei cuori, essa passa attraverso le relazioni più prossime, come la famiglia, per impregnare i popoli e arrivare ad essere pace nel mondo. Questa è una concreta sottolineatura, nel Messaggio Francesco supplica che si arrestino violenza domestica e abusi su donne e bambini. Con la stessa urgenza rivolge “un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica” (n. 5).

Tutto ciò è anche “un programma e una sfida per i leader politici e religiosi, per i responsabili delle istituzioni internazionali e i dirigenti delle imprese e dei media di tutto il mondo, (…) una sfida a costruire la società, la comunità o l’impresa di cui sono responsabili con lo stile degli operatori di pace; a dare prova di misericordia rifiutando di scartare le persone, danneggiare l’ambiente e voler vincere ad ogni costo” (…). “La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto. Tutto nel mondo è intimamente connesso”.

Mentre la violenza semplifica tagliando, sacrificando e impoverendo la realtà, con l’azione costruttiva e nonviolenta, “le tensioni e gli opposti [possono] raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita”, conservando “le preziose potenzialità delle polarità in contrasto” (n. 6). Infatti, la pace giusta è plurale, non fa deserto, non livella e non assorbe, non è la pace imperiale che schiaccia, ma favorisce l’armonia delle differenze, che sono la ricchezza della vita.

Impegno per uno sviluppo umano integrale
Un annuncio importante è dato da Francesco in questo messaggio: il 1° gennaio 2017 nasce il nuovo Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, mediante il quale la Chiesa Cattolica vuole accompagnare “ogni tentativo di costruzione della pace con la nonviolenza attiva e creativa”. Francesco propone di impegnarci a diventare persone intimamente nonviolente, a costruire comunità nonviolente, che si prendono cura della casa comune. “Tutti possono essere artigiani di pace” (n. 7).

I nonviolenti, i loro vari movimenti di qualunque religione o visione di vita, possono sentirsi riconosciuti, incoraggiati, sostenuti e impegnati da questo messaggio di un leader morale come, per tutti, è Francesco.

* Enrico Peyretti
Ricercatore per la pace nel Centro Studi Domenico Regis di Torino e membro del gruppo “Chicco di senape” aderente alla Rete dei Viandanti

(fonte: VIANDANTI)


venerdì 30 dicembre 2016

NATALE 2016, BOLOGNA - "Dio ci ama e non può restare lontano. Chi ama non può guardare a distanza! Per questo viene... L'amore ci fa vedere in ogni uomo o donna il fratello... " don Matteo Zuppi, arcivescovo

NATALE 2016 - BOLOGNA 


Dio ci ama e non può restare lontano. 
Chi ama non può guardare a distanza! 
Per questo viene ..
L'amore ci fa vedere in ogni uomo o donna il fratello... " 
don Matteo Zuppi, 
arcivescovo di Bologna






"Questa sera la città di Bologna ha avuto 2 cattedrali, una la sala di aspetto della stazione dove si sono riuniti i senzatetto e l’altra la Chiesa di S. Pietro" (don Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna - servizio RAI - TG Emilia Romagna Edizione del 25.12.2016 -19.30)

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Natale in Stazione

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Delle S. Messe alla stazione e in cattedrale


Omelia S. Messa nella notte di Natale 

in Cattedrale, 24 dicembre 2016

"Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama". Questo è il grido che risuona in questa notte santa che rischiara con tenera luce la notte degli uomini. Natale non è una bella notizia per un mondo distratto e dimentico. Non c'è niente di buono nel buio delle tenebre del mondo, di ogni violenza, dell'indifferenza, del banale pensare a sé (l'egoismo sdrucciolo che canta il poeta). E c'è un immenso e dolente bisogno di pace in un mondo che vive i pezzi della guerra mondiale. Noi siamo usciti proprio di notte perché abbiamo bisogno di luce, per la nostra vita e per i poveri che sono nella disperazione. "Il popolo che camminava nelle tenebre" ha bisogno di vedere questa "grande luce". Gesù nasce di notte perché è la luce nel buio e perché nessuno sia perduto nell'insignificanza, nel nulla. "Chi glielo fa fare a Dio di venire in un mondo così cattivo?" mi ha chiesto un bambino pochi giorni fa. Aveva ragione. Noi ci teniamo alla larga dei problemi, pensando di stare bene evitandoli, convinti di poterci salvare prudentemente da soli, sperando che non capiti a noi. Dio ci ama e non può restare lontano. Chi ama non può guardare a distanza! Per questo viene. Viene per le terribili notti buie di Aleppo e di tutte le città avvolte dalle tenebre di morte della guerra che cancella l'umanità dal cuore. Vien per le notti della sofferenza e della solitudine, per la disoccupazione, per quelli la cui vita non vale più niente tanto che anche loro stessi pensano non abbia significato. Viene per la notte della violenza che arma le mani assassine del terrorismo. Dio nasce perché ha speranza. Non aspetta che tutto sia risolto; non giudica e aspetta di verificare se ce la facciamo da soli; non dice come Caino "a me che importa"; non ha paura di sporcarsi con la nostra umanità, di essere incompreso, di perdere tempo con noi. Lui sì, si fa prossimo venendoci incontro come siamo, confusi, incerti, presuntuosi, complici assurdamente delle stesse tenebre che sono la nostra condanna. Natale è speranza. Dio nasce e così non può più tornare indietro, perché la sua speranza è una scelta definitiva per noi. Non rimane virtuale riservandosi sempre un'altra possibilità, come fanno gli uomini. Dio vuole che la speranza sia definitiva, non un'illusione che serve per tirarci su ma senza vincere il buio del male. Natale libera dalla rassegnazione, sottile o volgare, intelligente o rozza, ma che ci convince che non bisogna aspettarsi più nulla, che possiamo solo conservare quello che già è nostro. Natale è speranza che il mondo cambi e quindi invita a mettere tutto il cuore e l'intelligenza perché questo avvenga. E' speranza che il povero diventi il mio prossimo, lo straniero uno dei fratelli, l'anziano scartato un amico prezioso e una compagnia cara di cui anche noi in realtà abbiamo bisogno. E' la speranza che chi non ha posto lo trovi, che il peccatore sia riconciliato, che il violento diventi pacifico. Non si può vivere senza speranza. Non c'è vita senza speranza.
Per vivere la speranza del Natale dobbiamo essere umili, piegarci, proprio come occorre per entrare nella Basilica della Natività a Betlemme. Solo gli umili incontrano Gesù bambino e sono avvolti dalla gioia che unisce terra e cielo. I pastori sono gli umili. Essi non pensano a sé stessi. Vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Solo fuori dalla bolla di sapone e solo vegliando sui fratelli, specie i più deboli, possiamo andare a Betlemme. I grandi cercano la gioia nelle cose grandi, nell'affermazione di sé, nei palazzi del potere di Gerusalemme dove pensano di diventare importanti e si vendono per un po' di considerazione. Ma lì non nasce nulla. Dio si fa umile, piccolo, si regala e lo trovano gli umili. Impariamo anche noi a fare lo stesso per comunicare ad altri la luce del Natale con i piccoli gesti, possibili a tutti, di accoglienza, di tenerezza, di protezione per chi è lasciato fuori, forestiero, spogliato della sua dignità, escluso. "Sii la ragione del sorriso di qualcuno", ha detto un giovane profugo. L'amore ci fa vedere in ogni uomo o donna il fratello, con l'articolo determinativo, la sorella, quella persona, unica, bella perché amata, con i suoi difetti, i suoi sogni, le speranze, da aiutare come è, ad iniziare dai fratelli più piccoli del piccolo e commovente Bambino Gesù. Umile è chi non guarda l'altro con la distanza e la freddezza dell'operatore, ma con la premura del fratello, con la tenerezza di una madre. Non siamo chiamati ad essere dei volontari, ma dei fratelli! Ricordiamoci che possiede l'amore chi lo serve, perché l'importante non è ciò che si è ma ciò che si offre, diceva Raul Follereau. Lui amava ripetere che la più' grande disgrazia che possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la nostra vita non serva a niente. Aveva ragione. Che ci facciamo con la nostra vita se non la doniamo, se non cerchiamo amicizia andando incontro, regalando generosità? Chesterton diceva che "gli angeli possano volare perché non si prendono troppo sul serio". Umile è chi diventa leggero perché libero di amare, condividere, fare proprio tutto ciò che è del fratello. Sant'Agostino, ed è la scelta che Dio rivela nel suo Natale in questo mondo, invitava ad accogliere Gesù: "Chi vuole fare posto al Signore non deve appagarsi del suo bene particolare, ma deve preoccuparsi del bene comune. Come fecero i primi credenti: i loro beni particolari li fecero diventare beni comuni. Perdettero forse ciò che essi avevano per loro stessi? Se essi fossero stati soli a possederli, ciascuno non avrebbe posseduto che il suo bene proprio. Ma nel momento in cui uno mette in comune ciò che ha di proprio, diventa suo anche ciò che appartiene agli altri". Ecco la via dell'umile: mettere in comune, condividere, sfuggendo alla paura che ci fa conservare e vivere per sé, non confondendo amore con possesso. Lui, Dio, lo fa con noi. Noi possiamo farlo scegliendo l'umiltà e iniziando da chi è più povero. In questo anno Eucaristico contempliamo il Natale della carne di Dio che nasce e che ci viene offerta nel suo Corpo e nella sua Parola, presenza che ci genera a figli e ci dona la forza per condividere il cibo terreno! E' questa la via della gioia per tutti gli uomini che Egli ama e che scoprono come sono amati. Il contrario è l'uomo che si fa grande da solo, vero peccato originale di coloro che confidano tristemente solo nella propria forza per essere grandi. Buon Natale, mistero di amore che accende la speranza in un mondo tenebroso e ci indica la via dell'umiltà per trovare noi stessi e Dio, per combattere il male e cambiare il mondo. 
Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama.

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Omelia integrale in Cattedarle


Omelia S. Messa di Natale

Nel carcere della Dozza, 25 dicembre 2016

L'avvento ci aiuta a trovare le parole per capire ed esprimere quello che viviamo. Le cose di Dio non stanno nei cieli e basta, ma si uniscono a quelle nostre, a quelle della terra, così come sono e siamo. Le cose di Dio ci aiutano a trovare il senso della nostra vita, a volte così difficile da capire anche per noi. Ad esempio quante volte ci interroghiamo sul perché abbiamo fatto certe azioni, perché non può essere un caso! Spesso abbiamo paura di farlo fino in fondo, perché non riusciamo nemmeno noi a spiegare noi stessi, come se scoprissimo dentro di noi una forza oscura che ci ha portato a fare del male e farci del male. E questo ci angoscia. L'avvento è questa attesa di futuro, di nuovo, di speranza. Tutti abbiamo diritto a un futuro. E per questo c'è il Natale, per noi uomini ai quali sembra che non ci sia più domani. Vorremmo dimenticare il passato e non sappiamo proprio cosa abbiamo davanti. Dio viene sulla terra per aiutarci e per farlo non da lontano (come spesso fanno gli uomini che danno buoni consigli agli altri ma senza alzare mai un dito per davvero!) Viene per noi e perché la nostra attesa trovi già da adesso una risposta. Se vediamo la risposta, se sappiamo dove dobbiamo arrivare, se capiamo qual è il nostro futuro camminiamo tutti più veloci, meno incerti; superiamo le difficoltà, perché sappiamo che c'è un posto dove arrivare, come quando non siamo più presi di sorpresa e sappiamo che cosa ci succede. 
Natale è Dio che sceglie. Infatti nasce. È una scelta, perché così non può più tornare indietro, non può scomparire, volatilizzarsi come spesso facciamo noi che restiamo virtuali, non ci leghiamo mai agli altri fino in fondo e pensiamo si possa staccare e riattaccare come ci piace a noi. Dio sceglie una volta per sempre. Il suo amore è definitivo. Dio scommette su di noi. Davvero ci sembra impossibile. Ed è impossibile! Scommette su di me? Forse non mi conosce, non ha capito chi sono! Anche il più presuntuoso tra noi sa bene che non merita nulla. Dio scommette su di noi, mentre spesso, purtroppo, il mondo non solo non scommette ma ci ricorda continuamente il nostro passato e non ci aiuta a cercare e a credere nel futuro. E qualche volta anche noi ci rassegniamo. Non diciamo spesso: "orai è andata così", "sono così". Il futuro non viene da un momento all'altro, ma occorre costruirlo. E inizia da me! "Egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia", dice l'Apostolo. Perché "giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna". Non è scontato. Sappiamo bene come spesso la condanna resta, lo vedi negli sguardi, lo senti dentro, ti accorgi da quello che non è più possibile. E poi c'è quello che manca a te e, più importante ancora, quello che fai mancare agli altri. Quanto ci fa stare male che per colpa nostra manchi un posto a chi sappiamo ci vuole bene! I
Il futuro inizia dentro il cuore, aprendo quella cella che spesso teniamo chiusa, nascosta, ma così nascosta che non sappiamo più parlare di quello che abbiamo dentro. Dio scommette su di me? Gli piace vincere difficile! Davvero difficile! Su uno come me? Papa Francesco si interroga sempre, andando a visitare le carceri (e ci va in tutte le città che visita perché non dimentica mai i suoi fratelli carcerati) "perché io non sto qui?". Cioè: "Siamo tutti peccatori, tutti possiamo sbagliare, tutti abbiamo sbagliato. Dio scommette su noi, così come siamo. Lo ameranno proprio i peccatori, quelli che hanno sbagliato tutto! Non lo capiranno, invece, i giusti o quelli che, ipocriti, si ritengono a posto. A me ricorda un mio amico di Trastevere, che non aveva mai una lira. Si era innamorato di una ragazza e faceva finta di essere ricco. Lo faceva con i soldi miei, perché non aveva davvero una lira e mi veniva a chiedere qualcosa per fare scena e portarla a mangiare fuori, nei ristoranti buoni, sperando così che lei così si innamorasse di lui. Un giorno la ragazza scoprì tutto. Lui si mise a piangere, perché pensava che sarebbe finita la storia, che lei lo avrebbe lasciato. Ma la ragazza, che era davvero innamorata di lui, ma lui non lo credeva anzi pensava che interessasse solo per il conto che saldava, gli disse: "io avevo capito chi sei, mi piaci come sei non per le cene che mi paghi!". Lui disse: "Io pensavo che tu mi avresti lasciato!". Lei si mise a ridere! "Ma io ti amo per quello che sei!", gli disse. E stanno ancora assieme, anzi lui finalmente si è messo a lavorare! Ecco cosa fa Dio con noi! Scommette su di noi. Si è innamorato di noi! 
Infine di fronte a qualcuno che ci vuole bene ci possono essere due atteggiamenti. C'è chi se ne approfitta e chi, come quel mio amico, cambia, apre la cella del suo cuore, si fa volere bene così com'è, vuole bene. Certo approfittarsi di chi ti vuole bene è davvero da infami! Ti approfitteresti di tua madre? Vuol dire che proprio hai perso tutto! Ecco, non approfittiamo di Dio perché ci ama, ce lo dice con questo bambino di tenerezza infinita. Ci fa capire che Dio scommette su di noi, su di te, sul mondo. È venuto per dirci questo. Nasce per non andare più via. Natale ci apre alla speranza, che spesso non abbiamo più. Ma davvero non si può vivere senza speranza. E questa ci fa bene. Tanto. Infine oggi sentiamo l'amarezza perché non stiamo con nostri cari. Ci dispiace. E forse ci fa bene, perché ci aiuta a capire quanto ne abbiamo bisogno e anche per loro vogliamo guardare al domani. Qualcuno ha tanta amarezza perché fa mancare qualcosa a loro! Sono loro che stanno male per il fatto che noi non ci stiamo. E questo ci dispiace, forse ancora di più: quello che facciamo mancare alle persone che amiamo. 
Natale dice però una cosa: non ti rassegnare! Io vengo! E la mangiatoia a Natale è una sola: il mio cuore. Dio si fa deporre lì. Ma è una mangiatoia!! Lo sa. E si lascia mettere lì perché diventi il luogo più grande che c'è al mondo. Ecco la vera gioia del Natale. E gioia a Dio nell'altro dei cieli! 
Pace in terra agli uomini che egli ama e scommette su di loro perché l'attesa abbia una risposta! 
Grazie Dio e insegnaci a custodirti dentro la mangiatoia del mio cuore. Grazie: grazie, perché fai tutto questo per me.


Religiosità popolare - Preghiere in dialetto - Sicilia: Bammineddu duci, duci (Bambinello dolce, dolce) - canto e novena (testi e video)


La religiosità popolare di tutte le regioni italiane è ricca di preghiere dialettali, espressione di una cultura religiosa tramandata oralmente di generazione in generazione, per lo più dai nonni ai nipotini.
L'era moderna, purtroppo, tende a cancellare questo patrimonio, infatti le suddette preghiere permangono quasi esclusivamente nei ricordi delle persone più anziane. 

Nei giorni scorsi Padre Gregorio Battaglia, della Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto - ME - (che i nostri lettori sicuramente conoscono attraverso i post da noi pubblicati) ci chiedeva se fosse stato possibile  pubblicare una preghiera in dialetto siciliano ricordata da una persona anziana che sta attraversando un momento molto difficile, questa richiesta ci ha stimolati a promuovere nel periodo di Avvento la pubblicazione di questa forma di devozione appartenente al nostro patrimonio culturale estendendo l'invito ai nostri lettori di tutte le regioni italiane.

Ci farebbe molto piacere avere un riscontro positivo da parte dei nostri lettori, che pertanto invitiamo a inviare il loro contributo o con un messaggio privato in Facebook nella pagina "Quelli della Via" o scrivendo una email alla casella di posta di "Tempo Perso": 
tempo-perso@libero.it .
Vi chiediamo cortesemente di indicare, accanto alla versione dialettale, anche quella in lingua italiana e, nel caso ne foste a conoscenza, di corredarla di diversi particolari (ad esempio se veniva recitata in particolari periodi dell'anno o momenti della giornata, o se rivolta a qualche Santo per chiederne l'intercessione, o a qualunque altra informazione riteniate opportuno fornirci). 


Sarà nostra cura selezionare i suggerimenti, verificandone ovviamente i contenuti, e preparare i post ed anche uno Speciale, in continuo aggiornamento, in cui potere rintracciare con facilità tutte le preghiere.


Preghiere in dialetto



 Sicilia 

Notti Santa
(Notte Santa)

Bammineddu duci, duci, iu ti vegnu ad abbrazzari
Portu latti, meli e nuci cammiseddri, panni e ciuri.
Bammineddu duci, duci, iu ti vegnu ad adurari
Lu me’ cori canta e dici catu si’ lu Salvaturi
(Bambinello dolce, dolce, io vengo ad abbracciarti
porto latte, miele e noci camiciole, panni e fiori.
Il mio cuore canta e dice che tu sei i Salvatore)

‘ntra ‘na grutta si’ curcatu tra lu vo’ e l’asineddu, 
ca ti tennu calliatu: “taliati quantu è beddu”
(In una grotta sei coricato tra il bue e l'asinello
che ti riscaldano: "guardate quanto è bello")

Bammineddu duci, duci, iu ti vegnu ad abbrazzari
...

Ti ti ringraziu, Matri Santa ca nni dasti ‘u Ridinturi
Ca di grazia nni fa tanta, duna paci gioia e amuri.
(Ti ringrazio, Madre Santa che ci donasti il Redentore
che fa tante grazie, dona pace, gioia e amore.)

Bammineddu duci, duci, iu ti vegnu ad abbrazzari
...

San Giuseppi, senti a mia, puru a tia vegnu a ludari:
si lu sposu di Maria, di Gisuzzu prutitturi.
Notti santa, notti beddra, quanta festa nni lu munnu
nni lu celu c’è la stidda, stannu l’angili cantannu.
(San Giuseppe, ascoltami, vengo a rendere lode anche a te:
sei lo sposo di Maria, il protettore di Gesù.
Notte santa, notte bella, quanta festa nel mondo
nel cielo c'è una stella, cantano gli angeli.)

Bammineddu duci, duci, iu ti vegnu ad abbrazzari
...

Gloria a Diu nni lu Celu, paci all’omu nni la terra,
paci all’omu c’avi zelu e can un voli la guerra. 
Notti santa, notti beddra, quanta festa nni lu munnu
nni lu celu c’è la stidda, stannu l’angili cantannu.
(Gloria  a Dio nel cielo, pace all'uomo in terra
pace all'uomo di buona volontà che non vuole la guerra.
Notte santa, notte bella, quanta festa nel mondo
nel cielo c'è la stella, stanno cantando gli angeli.)

‘ntra ‘na grutta si’ curcatu tra lu vo’ e l’asineddu, 
ca ti tennu calliatu: “taliati quantu è beddu”
Ti ti ringraziu, Matri Santa ca nni dasti ‘u Ridinturi
Ca di grazia nni fa tanta, duna paci gioia e amuri.
(In una grotta sei coricato tra il bue e l'asinello
che ti riscaldano: "guardate quanto è bello")

Bammineddu duci duci, Bammineddu duci duci. 
(Bambinello dolce dolce, Bambinello dolce dolce.)


Guarda il video per ascoltare il canto



In Sicilia molte sono le preghiere ed i canti dedicati a Gesù Bambino come questo qui proposto; inoltre ci sembra opportuno ricordare l’usanza di celebrare nei giorni che precedono il Natale la novena natalizia (a nuvena) che affonda le sue radici in un lontano passato e, ancora oggi, sopravvive in alcuni paesi dell’Isola. 

Col termine nuvena s’intende anche un canto natalizio che, anticamente, durante i nove giorni precedenti la vigilia di Natale, era eseguito, davanti al presepio, dai ninariddari, dai ciaramiddari  (suonatori di zampogne) o da suonatori di strumento a fiato.

I ninariddari andavano in giro per le case e sostavano anche davanti alle putie (botteghe), accompagnando con la musica le cosiddette ninnareddi, cantate natalizie che, fino al 1867, erano eseguite di notte. 
Alla fine della Novena era tradizione che u capufamigghia (il capofamiglia) o u putiàru (il proprietario della bottega) regalassero al ninariddaru un tipico dolce natalizio ripieno di frutta e fichi secchi: u cucciddatu.

A Nuvena era caratterizzata dalla scattiata dâ ciaramedda (suonata della zampogna) davanti figuredda (un altarino) rappresentante un piccolo presepe, sul quale era posta Cona (un'icona raffigurante la Natività).

A figuredda era addobbata con rami d’alloro, agrumi e fiori ed illuminata, al pari della Cona con nove candele o nove lumini. 

La novena dê ciaramiddara era suddivisa in quattro tempi (i cosiddetti caddozzi) ciascuno della durata di circa dieci minuti. Nel primo tempo, veniva suonata una melodia popolare dedicata a Sant’Antuninu, nel secondo, una in onore di San Giuseppi; il terzo tempo consisteva, perlopiù, in una serie d’invocazioni alla Madonna e ai Santi (a litanìa). L’ultimo caddozzu, infine, era eseguito a-ppiàciri, ossia a scelta dû ciaramiddaru o dû patruni di casa.

Guarda il video che ne propone una indicando il testo in dialetto e la versione in italiano




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"Sulla soglia del nuovo anno - Una riforma spirituale" di Enzo Bianchi

Sulla soglia del nuovo anno Una riforma spirituale
di Enzo Bianchi


Papa Francesco, appena varcata la soglia degli ottant’anni, ha segnato con la serenità che lo contraddistingue i momenti tradizionalmente legati alla fine di un anno civile: l’incontro con la curia romana e i messaggi di Natale e per la giornata mondiale della pace di Capodanno. Vigilante e visionario, il Pontefice appare un uomo forte, in buona salute, un cristiano che si nutre di fede convinta, un pastore che conosce la sollecitudine per ogni pecora a cominciare da quella smarrita, per la Chiesa che presiede, per le Chiese cristiane tutte.

Presto si compiranno quattro anni dall’inizio del suo servizio papale e forse possiamo decifrare cosa abbia significato e significhi nella Chiesa e nel mondo la successione all’apostolo Pietro di un vescovo che proviene non solo, come si ripete, dalle periferie del mondo, ma anche e soprattutto dagli interiora ecclesiae. Occorre ascolto del suo magistero, ascolto della società e della storia nella consapevolezza che gli effetti di un pontificato sono la conseguenza non solo del Papa, ma anche dei collaboratori, chiamati a corrispondere alle sue intenzioni profonde.

Il primo elemento sottolineato da molti è che, con l’avvento di Francesco, si è sviluppato un clima nuovo, nel quale si sono sopite paure e inibizioni, un clima di maggiore libertà, come aveva auspicato Paolo VI nell’udienza generale del 9 luglio 1969: «Avremo quindi un periodo nella vita della Chiesa, e perciò in quella d’ogni suo figlio, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e di minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo; sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di quella libertà cristiana, che tanto interessò la prima generazione cristiana».

In anni non lontani, e spesso in Italia, si registrava una situazione dove prosperavano, determinando contrapposizioni e divisioni, quanti arrivavano ad accusare altri fedeli di scarsa fede cattolica, di eresia, in una logica sempre più esclusivista. Un clima che inibiva chi, avendo opinioni diverse, non aveva il coraggio di parlare. Questo clima è ormai memoria del passato. Papa Francesco non fa nulla che possa ispirarsi a una logica di contrapposizione ma, al contrario, cerca instancabilmente di destare comunione. Esistono sì gruppi e componenti della Chiesa che non si limitano a una critica rispettosa, ma si spingono fino a delegittimare il Pontefice con accuse grottesche e polemiche insistenti. Tuttavia non intaccano il clima generale che favorisce quella “opinione pubblica” nella Chiesa di cui già Pio XII nel 1951 lamentava la mancanza, clima che stimola il confronto e rende la Chiesa una comunione rispettosa delle diversità, e per questo spiritualmente più ricca, e vi è maggiore libertà teologica e pastorale nell’annuncio dell’unico Vangelo.

Questa diversità di doni è più evidente anche grazie alla mutata posizione dei movimenti nella Chiesa, favorita da Papa Francesco. Di alcuni si constatava una certa aggressività, narcisismo e autoreferenzialità che portavano a giudicare gli altri cristiani come mediocri e a percepirsi come la parte migliore della Chiesa: una realtà carismatica, che tuttavia rischiava di favorire posizioni da Chiesa parallela. La stessa Pentecoste, compimento del mistero pasquale, sembrava declassata a festa dei movimenti. Il Pontefice, senza alcun gesto di ostilità, ha accolto queste nuove realtà non chiedendo loro se non di resistere alle tentazioni del proselitismo, della testimonianza muscolare, del volersi contare, del professare la fede “contro”, ma di porsi invece nella sinfonia ecclesiale, proprio in obbedienza allo Spirito santo che li ha suscitati. Così la Chiesa si mostra oggi più che mai “popolo di Dio”, espressione cara a Francesco non solo per la matrice conciliare, ma perché capace di indicare la qualità quotidiana, “popolare”, non elitaria della comunità cristiana.

Ma ciò che in modo più evidente è accaduto in questo pontificato è il nuovo slancio conferito all’ecumenismo. Pareva stagnante, al punto che alcuni parlavano di “inverno ecumenico”, ma il Papa, con gesti inattesi e impensabili più ancora che con parole, ha ridestato quel desiderio di unità che aveva accompagnato la stagione postconciliare nella Chiesa cattolica e parallelamente nelle altre Chiese.

Mosso dalle convinzioni, ribadite più volte, che l’ecumenismo si fa innanzitutto camminando insieme e che il martirio di tanti fratelli e sorelle cristiani realizza un “ecumenismo del sangue”, il Pontefice ha fatto dei suoi viaggi delle pietre miliari del dialogo con le altre Chiese. A Torino ha voluto incontrare la comunità valdese, sempre rimasta nel cono d’ombra dell’ecumenismo cattolico. Cuba è stata la tappa imprevista e irrituale che ha coronato la sua tenacia nel ricercare l’incontro, come fratello, con Cirillo, patriarca di Mosca. La visita in Georgia si è rivelata capace di superare anche la non reciprocità nell’accoglienza ecclesiale. La presenza a Lund ha significato fare memoria, con le comunità protestanti, dei cinque secoli della Riforma: non per festeggiare una rottura della comunione ecclesiale, ma per rileggere quegli eventi cercando di evidenziarne le intenzioni evangeliche e per riconoscere di fronte all’unico Signore le rispettive colpe. Nessun Papa dopo Paolo VI ha osato quanto Francesco nell’andare incontro a un’altra Chiesa, a costo di umiliarsi nella propria persona purché il servizio papale potesse essere vissuto come un misericordioso presiedere nella carità.

Va poi evidenziato lo sforzo di Francesco per portare a compimento il concilio Vaticano II nel suo progetto di dialogo con il mondo e la modernità. La Chiesa è stata sovente tentata di esercitare il ministero della condanna, dell’intransigenza per il bene delle anime cattoliche; il Pontefice, per il bene di tutti, cristiani o meno, vuole instaurare una cultura del dialogo, un esercizio dell’ascolto della società e della storia, un discernimento per poter camminare insieme. Ecco perché la Chiesa è stata invitata con l’anno della misericordia, sigillo dei due sinodi, a essere inclusiva e non escludente, ad andare incontro a chi ha peccato, accordandogli il perdono di Dio e annunciando la misericordia senza confini.

Ma è significativo che proprio sullo stile e la prassi della misericordia il Papa abbia conosciuto e conosca l’opposizione più dura, una vera contestazione. Non si può tacere che ciò avvenne anche nei confronti di Gesù, come testimoniano i vangeli. Cosa lo ha portato alla condanna? L’annuncio del volto misericordioso di Dio, null’altro: Gesù non ha contraddetto la Torah, ma l’ha posta sotto il primato dell’amore fraterno e della misericordia di Dio. Sempre all’insegna della misericordia, “cuore per i miseri”, va compresa la sua passione per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società: tutti figli di Dio, con la stessa dignità. Una «Chiesa povera e per i poveri» e dunque una Chiesa di “beati” secondo il Vangelo: questo desidera Francesco ed è ciò a cui si sente impegnato dal nome del santo di Assisi che ha voluto assumere. I suoi viaggi nel Mediterraneo, attraversato da migranti, la sua sollecitudine per loro anche nell’ammonire i potenti e i governanti del mondo svelano cosa gli brucia nel cuore.

Ora, se questi sono i segni distintivi del pontificato di Francesco, cosa attende ancora il popolo di Dio ascoltando le sue parole? Attende che la riforma della Chiesa, in capite et in membris, continui e si manifesti con chiarezza. Di riforma della Chiesa si parla da quasi dieci secoli e la Chiesa è semper reformanda. Il Papa è animato da questa intenzione e lo dichiara sovente: anche nel quarto discorso natalizio alla curia romana ha ribadito questo impegno.

Ma, come monaco che legge spesso il De consideratione di san Bernardo, mi permetto di avanzare alcune osservazioni. Innanzitutto non ci può essere riforma della curia senza riforma della Chiesa e, in primo luogo, della vita dei presbiteri e dei vescovi: è un rinnovamento urgente che tuttavia richiede molto tempo. Francesco ha ragione quando dice che la riforma della curia non può essere ridotta a rimozioni e sostituzioni di persone, ma deve essere conversione personale, cambiamento spirituale, fede in Gesù Cristo che è il Vangelo. Per questo una riforma della curia darà frutti duraturi solo se il Papa riuscirà ad attuarla con la curia stessa e la curia con il Papa, altrimenti non sarà possibile operare mutamenti efficaci in una realtà così complessa. Riforma della Chiesa significa una Chiesa meno mondana, che sa opporre resistenza alle tentazioni del potere, della ricerca del successo, che sa non solo servire i poveri ma anche imparare dalla loro cattedra.

Francesco, come riconoscono tutti, ha destato molte speranze e anche entusiasmi nelle Chiese, di cui non possiamo che rallegrarci. Ma bisogna ricordare ancora una volta che più la Chiesa brilla della luce del risorto più si scatenano le potenze demoniache che si rivoltano contro di essa, più la Chiesa è Vangelo vissuto e più troverà opposizione e persecuzione, come il suo Signore. Quando ascolto tanti semplici fedeli raccolgo la speranza che il Papa riformi poche cose essenziali, ma tali che non si possa tornare indietro.
(Fonte: Monastero di Bose - articolo pubblicato su L'Osservatore Romano, 29-30 dicembre 2016)



Nella storia la vera cultura non è quella del vincere, ma del riconciliare.Da Aleppo a Berlino, ripartendo da Fontem di Massimo Toschi

Nella storia la vera cultura non è quella del vincere, 
ma del riconciliare.
Da Aleppo a Berlino, ripartendo da Fontem 
di Massimo Toschi


CAMERUN - Viaggio nella foresta equatoriale per celebrare il giubileo straordinario di questa piccola città, inaugurata nel 1966.
 Il pensiero va ai sofferenti del mondo intero


All’indomani del Concilio, pochi mesi dopo la sua conclusione, Fontem fu inaugurata. Verrebbe da parafrasare le parole del profeta: «E tu, Fontem, la più piccola delle città del Camerun, da te nascerà un figlio, che dominerà l’Africa». Ero già venuto dieci anni fa, nel 2006, per vedere una originale esperienza di convivenza che poteva costituire un punto di riferimento per il superamento dei conflitti etnici e tribali che hanno devastato in questi ultimi trent’anni l’Africa.
Tutto nasce nel Concilio Vaticano II. Il vescovo di questa area segnata dall’epidemia costante e tragica della malattia del sonno, chiede a Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, di inviare alcuni medici per dare una mano ai popoli di quel luogo minacciato. Una richiesta semplice e diretta, senza tante strategie, che riceve una risposta altrettanto semplice e diretta. Il Concilio cambia la vita di un piccolo pezzo del Camerun in modo semplice: qualche medico per curare i bambini che morivano di devastanti epidemie. La presa in cura dei piccoli, secondo la parola di papa Giovanni XXIII della Chiesa dei poveri.

La venuta dei medici nel 1966 ebbe un grande successo, i bambini cominciarono ad essere curati e si decise di avviare la costruzione di un ospedale per rafforzare e consolidare l’intervento sanitario. L’ospedale cominciò a ospitare malati di tribù e etnie diverse, che si erano sempre guardate con diffidenza e talora combattute. A partire dalle corsie del piccolo ospedale si posero le basi di una nuova convivenza, non nel segno del conflitto, ma della riconciliazione. A Fontem nasce anche un college che mette insieme giovani di etnie diverse provenienti da tutta la regione, per prepararsi agli studi universitari da fare poi a Douala e a Yaoundè. E il college diventa strumento per far crescere una cultura del dialogo e dell’incontro, davvero secondo una cultura del perdono. Nell’ospedale la gente sperimenta la condizione di uguaglianza di tutti e di ciascuno, secondo una nudità che non cancella, ma narra il patire di ogni persona con la sua storia. Nel college i giovani imparano la parola del perdono e della riconciliazione, le parole fondamentali per costruire il futuro della convivialità delle differenze.

Non lontano da Fontem, il Camerun confina con Paesi come la Repubblica Centrafricana, il Ciad, il Mali. Bangui, “capitale spirituale del mondo” come l’ha definita papa Francesco confina con la regione di Fontem e porta con sé i segni di un terrorismo islamico capace di molti volti e al tempo stesso pericolosissimo, per la sua ferocia. Ecco, Fontem è una risposta al tempo stesso concreta, quotidiana, efficace e spiritualmente vigorosa. Non basta solo la guarigione, ma la costruzione di una visione del futuro che liberi l’Africa dalla tentazione della violenza e del conflitto. La vita e la salute sono decisive, ma la cultura è ancor più necessaria per vincere la partita del futuro dell’Africa.

I malati che sono curati, piccoli e grandi, ricchi e poveri (circa trentamila l’anno, mentre i parti sono ottocento l’anno, in condizioni di sicurezza) vengono da tribù diverse e cosi i ragazzi e i giovani che studiano al college (circa cinquecento l’anno). Essi sono i veri attori della nuova Africa e questo disegno ha come protagonisti un college, un ospedale e anche una visione di insieme, potremmo dire di unità e di riconciliazione. Per questo la Regione Toscana e l’Unicoop hanno deciso di sostenere questo progetto ambizioso e innovativo, sia sul versante della scuola che di quello della salute. In particolare c’è stato un grande impegno per la lotta all’Aids.

Sono necessari gli ospedali e le scuole, ma senza una visione, una ispirazione, si rischia di porre dei mattoni senza forza e senza stabilità, che possono essere spazzati via dal vento e dell’acqua. Le celebrazioni per il giubileo straordinario di Fontem hanno contenuto questo segreto. Il bellissimo ospedale colpiva per la cura con cui è tenuto, custodito e riguardato e al tempo stesso il college si affermava per la sua solidità non solo muraria, ma culturale.

La marcia degli ex studenti, che hanno fatto durante la festa, è stata la narrazione di una seminagione di lungo periodo: gruppi più o meno consistenti, anno per anno, indicavano storie straordinarie di vita in tante parti del mondo, in particolare negli Stati Uniti, ma che non hanno dimenticato il punto di partenza di cinquant’anni prima, e sostengono i nuovi studenti con aiuti economici e culturali, perché la semina non abbia fine. Il conflitto etnico si scioglie in una cultura condivisa, che fa degli studenti del college dei cittadini del mondo, ma sempre legati ai loro antenati e alle loro radici.

Se Fontem contiene la cultura della pace e del perdono, Boko Haram contiene le opere della distruzione nel Nord del Camerun e non solo. Mentre in Europa crescono gli etnocentrismi e i populismi, con il loro potere distruttivo, nella grande Africa, sull’onda della ispirazione di Mandela, nascono queste straordinarie esperienze che non hanno la pretesa di cambiare la storia, ma di fecondarla in modo nuovo secondo una saggezza antica e una visione moderna. Se si vuole fecondare la pace ci vogliono una cultura e una visione di pace, altrimenti saremo solo moltiplicatori di guerra senza fine. Nel tempo della Terza guerra mondiale a pezzi, solo la pace e il perdono sconfiggono la paura e i conflitti.

Pensavo queste cose nel mio lungo viaggio verso Fontem. Pensavo ad Aleppo e alla sua tragedia. Si è pensato di sconfiggere la Siria con la guerra, a cui molti hanno dato il loro contributo; e invece abbiamo prodotto una tragedia di dimensioni indicibili, nel numero degli uccisi, nelle distruzioni che hanno devastato tutto. Si è pensato che la guerra potesse essere guarita dalla guerra, mentre è vero esattamente il contrario.

Quello che abbiamo visto in questi giorni i e in queste ore sarà come un giudizio di Dio sui popoli e sui governi del conflitto. Hanno vinto i grandi interessi politici, militari ed economici, che hanno schiacciato i bambini innocenti, gli anziani abbandonati, i disabili, prigionieri tragici della loro disabilità, che non sono stati capaci di fuggire dalla guerra, tanto meno di lasciare il loro Paese. Come sempre c’è una gerarchia di morte, che nessuno ha il potere di evitare nella fuga.

Dopo cinque anni, la guerra in Siria denuncia il fallimento politico di chi quella guerra ha voluto, con sottile astuzia e con una violenza senza limiti. L’Europa, gli Stati Uniti e la Russia sono attori responsabili di tutto questo, insieme all’Iran, all’Arabia Saudita, all’Iraq… Tutti hanno creduto che la guerra fosse solo la via breve, ed invece era semplicemente la via tragica, con il risultato di moltiplicare la paura e l’angoscia in ogni angolo del mondo. I rifugiati sono la narrazione di un disegno disperato sul Mediterraneo e sull’Europa.

Abbiamo scelto la cultura della paura ed è arrivato il terrorismo, capace di penetrare gli angoli più bui della nostra vita. Abbiamo scoperto l’otre della violenza e del terrore, e non siamo stati più capaci di rinchiuderlo. E il terrore è arrivato a Parigi, a Bruxelles, a Colonia, a Madrid, a Istanbul, a Berlino, non molte ore fa.
Quel terrore nasce dalla guerra, non dai rifugiati; dai poteri finanziari e militari non da coloro che lasciano la Siria in condizioni indicibili e complicatissime. Questa è una partita che non si vince acuendo lo scontro, ma cambiando le regole del gioco,cioè costruendo una visione mite e coraggiosa della pace e dell’Europa. Impariamo da Fontem, dalla cura e dalla cultura, per costruire il futuro. Mettiamo al centro i feriti, i piccoli, gli abbandonati, i violati e così, servendo loro, si serviranno tutti. Ecco il segreto di Fontem: non le armi della guerra, apparentemente potentissime, ma in concreto fallimentari, ma gli strumenti della cultura e della riconciliazione, dell’incontro e del dialogo: alla fine bastano un ospedale e un college.

L’Europa non è esente da questa partita e neppure le Chiese, che fanno fatica ad affidarsi al realismo del Vangelo e non a quello disperato del potere. Gli innocenti e i rifugiati bussano alla nostra porta. Apriamo alla loro domanda di pace e di futuro. Non escludiamoli dalla nostra vita. Il papa ogni giorno ci ricorda questo in modo incessante. Non voltiamoci indietro, perché saremo pietrificati, mentre l’Europa ha bisogno di pietre vive. Berlino ha bisogno non di muri, che appartengono ad un ricordo tragico della storia, ma instancabilmente deve cercare la cultura e la parola della pace. Nella storia la vera cultura non è quella del vincere, ma del riconciliare.
(Fonte: CittaNuova)