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martedì 28 febbraio 2017

«La gioia è il segnale che si è sulla strada giusta» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
28 febbraio 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


Papa Francesco:
tutto e niente”

«Contento, Señor, contento!»: il volto sorridente di un santo contemporaneo, il cileno Alberto Hurtado, il quale anche nelle difficoltà e nelle sofferenze assicura al Signore di essere «felice», si è contrapposto a quello «rattristato» del «giovane ricco» evangelico nella meditazione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta, martedì 28 febbraio. Sono i due modi di rispondere al dono e alla proposta di vita che Dio fa all’uomo e che il Pontefice ha sintetizzato con un’espressione: «Tutto e niente».

L’omelia di Francesco ha preso le mosse da una considerazione sulla liturgia di questi «tre ultimi giorni prima della Quaresima» nella quale è presentato il «rapporto fra Dio e le ricchezze». Nel vangelo di domenica, ha ricordato, «il Signore è stato chiaro: non si può servire Dio e le ricchezze. Non si possono servire due padroni, due signori: o tu servi Dio o servi le ricchezze». Lunedì, invece, «è stata proclamata la storia di quel giovane ricco, che voleva seguire il Signore ma alla fine era tanto ricco che ha scelto le ricchezze». Un passo evangelico (Marco, 10, 17-27) nel quale si sottolineava il monito di Gesù: «Quanto difficile è che un ricco entri nel regno dei cieli. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago», e la reazione dei discepoli «un po’ spaventati: “Ma chi si può salvare?”».

Martedì la liturgia ha continuato a proporre il brano di Marco prendendo in esame la reazione di Pietro (10, 28-31), che dice a Gesù: «Va bene e noi?». Sembra quasi, ha commentato il Papa, che Pietro con la sua domanda — «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito. Cosa tocca a noi?» — presentasse «il conto al Signore», come in una «negoziazione di affari». In realtà, ha spiegato il Pontefice, non era probabilmente «quella l’intenzione di Pietro», il quale, evidentemente, «non sapeva cosa dire: “Sì, questo se ne è andato, ma noi?”». In ogni caso, «la risposta di Gesù è chiara: “Io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato tutto senza ricevere tutto”». Non ci sono mezze misure: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto», «Riceverete tutto». C’è invece «quella misura traboccante con la quale Dio dà i suoi doni: “Riceverete tutto. Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madri o padri o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora in questo tempo cento volte tanto in case, fratelli, sorelle, madri, campi, e la vita eterna nel tempo che verrà”. Tutto».

Questa è la risposta, ha detto il Pontefice: «Il Signore non sa dare meno di tutto. Quando lui dona qualcosa, dona se stesso, che è tutto».

Una risposta, però, dove emerge una parola che «ci fa riflettere». Gesù infatti afferma che si «riceve già ora in questo tempo cento volte in case, fratelli insieme a persecuzioni». Quindi «tutto e niente». Ha spiegato il Papa: «Tutto in croce, tutto in persecuzioni, insieme alle persecuzioni». Perché si tratta di «entrare in un altro modo di pensare, in un altro modo di agire». Infatti «Gesù dà se stesso tutto, perché la pienezza, la pienezza di Dio è una pienezza annientata in croce». Ecco quindi il «dono di Dio: la pienezza annientata». Ed ecco allora anche «lo stile del cristiano: cercare la pienezza, di ricevere la pienezza annientata e seguire per quella strada». Certamente un impegno che «non è facile».

Ma il Papa, seguendo la sua meditazione, è andato oltre e si è chiesto: «qual è il segno, qual è il segnale che io vado avanti in questo dare tutto e ricevere tutto?». Cosa fa capire, insomma, che si è sulla strada giusta? La risposta, ha detto, si trova nella prima lettura del giorno (Siracide 35, 1-15), dove è scritto: «Glorifica il Signore con occhio contento. In ogni offerta mostra lieto il tuo volto, con gioia, consacra la tua decima. Dà all’Altissimo secondo il dono da lui ricevuto e con occhio contento secondo la tua volontà». Quindi, «occhi contenti, lieto il volto, gioia...». Ha spiegato il Pontefice: «Il segno che noi andiamo su questa strada del tutto e niente, della pienezza annientata, è la gioia».

Non a caso «il giovane ricco si fece scuro in volto e se ne andò rattristato». Non era stato «capace di ricevere, di accogliere questa pienezza annientata». Invece, ha spiegato il Papa, «i santi, Pietro stesso, l’hanno accolta. E in mezzo alle prove, alle difficoltà avevano lieto il volto, l’occhio contento e la gioia del cuore. Questo è il segno».

Ed è a questo punto che il Papa è ricorso a un esempio tratto dalla vita della Chiesa contemporanea: «Mi viene in mente — ha detto — una frase piccolina di un santo, san Alberto Hurtado, cileno. Lavorava sempre, difficoltà dietro difficoltà, dietro difficoltà... Lavorava per i poveri». È un santo che «è stato perseguitato» e ha dovuto affrontare «tante sofferenze». Ma «lui quando era proprio lì, annientato in croce» diceva: «Contento, Señor, contento, “Felice, Signore, felice”».

Che sant’Alberto, ha concluso il pontefice, «ci insegni ad andare su questa strada, ci dia la grazia di andare su questa strada un po’ difficile del tutto e niente, della pienezza annientata di Gesù Cristo e dire sempre, soprattutto nelle difficoltà: “Contento, Signore, contento”».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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"Il rapporto tra cattolici e anglicani oggi è buono, ci vogliamo bene come fratelli!" Papa Francesco incontra la Comunità Anglicana di Roma (foto, testi e video)

 26 febbraio 2017 
Papa Francesco incontra la Comunità Anglicana nella Chiesa All Saints’ di Roma



Una visita molto intima quella del Papa alla Comunità Anglicana nella Chiesa All Saints’ di Roma, a via del Babuino, per le celebrazioni del 200° anniversario.
Non ci sono folle che attendono il Papa, ma il clero anglicano e due “cerimonieri”. Uno di essi è una dipendente della Santa Sede, da decenni giornalista inglese della Radio Vaticana.

Il saluto in inglese del vescovo David e del parroco della chiesa ricordano rapporti amichevoli che la comunità anglicana ha sempre avuto con la Sede Romana, ma anche come gli anglicani usassero all’inzio dello scisma nato per volere del re contro Roma, la definizione “vescovo di Roma” fosse usata in senso dispregiativo.

I tempi sono profondamente cambiati e i rapporti tra il Papa e l'arcivescovo di Canterbury sono segnati da un profondo ecumenismo, tanto che anche la parrocchia anglicana di Tutti i Santi è oggi gemellata con la parrocchia cattolica di Ognissanti a Roma. E durante la vista del Papa questo gemellaggio è stato formalmente solennizzato.

Il Papa ha benedetto una icona di Cristo San Salvatore e insieme ai vescovi Vescovi presenti ha acceso le candele davanti all’icona. L’icona di San Salvatore è stata creata da Ian Knowles, artista inglese residente a Betlemme e si ispira ad una miniatura di Matthew Paris, un monaco benedettino inglese del tredicesimo secolo.

Il rito è proseguito secondo uno schema anglicano con il rinnovo delle promesse battesimali guidate nelle rispettive lingue da Papa Francesco e dal Rt Rev. Robert Innes, Vescovo anglicano per l’Europa. 



Dopo la lettura di un brano di San Paolo il Papa ha tenuto una omelia

Il testo integrale dell'omelia

Cari fratelli e sorelle,

vi ringrazio per il gentile invito a celebrare insieme questo anniversario parrocchiale. Sono trascorsi più di duecento anni da quando si tenne a Roma il primo servizio liturgico pubblico anglicano per un gruppo di residenti inglesi che vivevano in questa parte della città. Molto, a Roma e nel mondo, è cambiato da allora. Nel corso di questi due secoli molto è cambiato anche tra Anglicani e Cattolici, che nel passato si guardavano con sospetto e ostilità; oggi, grazie a Dio, ci riconosciamo come veramente siamo: fratelli e sorelle in Cristo, mediante il nostro comune battesimo. Come amici e pellegrini desideriamo camminare insieme, seguire insieme il nostro Signore Gesù Cristo.

Mi avete invitato a benedire la nuova icona di Cristo Salvatore. Cristo ci guarda, e il suo sguardo posato su di noi è uno sguardo di salvezza, di amore e di compassione. È lo stesso sguardo misericordioso che trafisse il cuore degli Apostoli, che iniziarono un cammino di vita nuova per seguire e annunciare il Maestro. In questa santa immagine Gesù, guardandoci, sembra rivolgere anche a noi una chiamata, un appello: “Sei pronto a lasciare qualcosa del tuo passato per me? Vuoi essere messaggero del mio amore, della mia misericordia?”.

La misericordia divina è la sorgente di tutto il ministero cristiano. Ce lo dice l’Apostolo Paolo, rivolgendosi ai Corinzi, nella lettura che abbiamo appena ascoltato. Egli scrive: «Avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo» (2 Cor 4,1). In effetti, san Paolo non ha sempre avuto un rapporto facile con la comunità di Corinto, come dimostrano le sue lettere. Ci fu anche una visita dolorosa a questa comunità e parole concitate vennero scambiate per iscritto. Ma questo brano mostra l’Apostolo che supera le divergenze del passato e, vivendo il suo ministero secondo la misericordia ricevuta, non si rassegna davanti alle divisioni ma si spende per la riconciliazione. Quando noi, comunità di cristiani battezzati, ci troviamo di fronte a disaccordi e ci poniamo davanti al volto misericordioso di Cristo per superarli, facciamo proprio come ha fatto san Paolo in una delle prime comunità cristiane.

Come si cimenta Paolo in questo compito, da dove comincia? Dall’umiltà, che non è solo una bella virtù, è una questione di identità: Paolo si comprende come un servitore, che non annuncia se stesso, ma Cristo Gesù Signore (v. 5). E compie questo servizio, questo ministero secondo la misericordia che gli è stata accordata (v. 1); non in base alla sua bravura e contando sulle sue forze, ma nella fiducia che Dio lo guarda e sostiene con misericordia la sua debolezza. Diventare umili è decentrarsi, uscire dal centro, riconoscersi bisognosi di Dio, mendicanti di misericordia: è il punto di partenza perché sia Dio a operare. Un Presidente del Consiglio Ecumenico delle Chiese descrisse l’evangelizzazione cristiana come «un mendicante che dice a un altro mendicante dove trovare il pane» (Dr. D.T. Niles). Credo che san Paolo avrebbe approvato. Egli si sentiva “sfamato dalla misericordia” e la sua priorità era condividere con gli altri il suo pane: la gioia di essere amati dal Signore e di amarlo.

Questo è il nostro bene più prezioso, il nostro tesoro, e in questo contesto Paolo introduce una delle sue immagini più note, che possiamo applicare a tutti noi: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (v. 7). Siamo solo vasi di creta, ma custodiamo dentro di noi il più grande tesoro del mondo. I Corinzi sapevano bene che era sciocco preservare qualcosa di prezioso in vasi di creta, che erano a buon mercato, ma si crepavano facilmente. Tenere al loro interno qualcosa di pregiato voleva dire rischiare di perderlo. Paolo, peccatore graziato, umilmente riconosce di essere fragile come un vaso di creta. Ma ha sperimentato e sa che proprio lì, dove la miseria umana si apre all’azione misericordiosa di Dio, il Signore opera meraviglie. Così opera la «straordinaria potenza» di Dio (v. 7).

Fiducioso in questa umile potenza, Paolo serve il Vangelo. Parlando di alcuni suoi avversari a Corinto, li chiamerà «superapostoli» (2 Cor 12,11), forse, e con una certa ironia, perché lo avevano criticato per le sue debolezze, da cui loro si ritenevano esenti. Paolo, invece, insegna che solo riconoscendoci deboli vasi di creta, peccatori sempre bisognosi di misericordia, il tesoro di Dio si riversa in noi e sugli altri mediante noi. Altrimenti, saremo soltanto pieni di tesori nostri, che si corrompono e marciscono in vasi apparentemente belli. Se riconosciamo la nostra debolezza e chiediamo perdono, allora la misericordia risanatrice di Dio risplenderà dentro di noi e sarà pure visibile al di fuori; gli altri avvertiranno in qualche modo, tramite noi, la bellezza gentile del volto di Cristo.

A un certo punto, forse nel momento più difficile con la comunità di Corinto, Paolo cancellò una visita che aveva in programma di farvi, rinunciando anche alle offerte che avrebbe ricevuto (2 Cor 1,15-24). Esistevano tensioni nella comunione, ma non ebbero l’ultima parola. Il rapporto si rimise in sesto e l’Apostolo accettò l’offerta per il sostegno della Chiesa di Gerusalemme. I cristiani di Corinto ripresero a operare insieme alle altre comunità visitate da Paolo, per sostenere chi era nel bisogno. Questo è un segno forte di comunione ripristinata. Anche l’opera che la vostra comunità svolge insieme ad altre di lingua inglese qui a Roma può essere vista in questo modo. Una comunione vera e solida cresce e si irrobustisce quando si agisce insieme per chi ha bisogno. Attraverso la testimonianza concorde della carità, il volto misericordioso di Gesù si rende visibile nella nostra città.

Cattolici e Anglicani, siamo umilmente grati perché, dopo secoli di reciproca diffidenza, siamo ora in grado di riconoscere che la feconda grazia di Cristo è all’opera anche negli altri. Ringraziamo il Signore perché tra i cristiani è cresciuto il desiderio di una maggiore vicinanza, che si manifesta nel pregare insieme e nella comune testimonianza al Vangelo, soprattutto attraverso varie forme di servizio. A volte, il progresso nel cammino verso la piena comunione può apparire lento e incerto, ma oggi possiamo trarre incoraggiamento dal nostro incontro. Per la prima volta un Vescovo di Roma visita la vostra comunità. È una grazia e anche una responsabilità: la responsabilità di rafforzare le nostre relazioni a lode di Cristo, a servizio del Vangelo e di questa città.

Incoraggiamoci gli uni gli altri a diventare discepoli sempre più fedeli di Gesù, sempre più liberi dai rispettivi pregiudizi del passato e sempre più desiderosi di pregare per e con gli altri. Un bel segno di questa volontà è il “gemellaggio” realizzato tra la vostra parrocchia di All Saints e quella cattolica di Ognissanti. I Santi di ogni confessione cristiana, pienamente uniti nella Gerusalemme di lassù, ci aprano la via per percorrere quaggiù tutte le possibili vie di un cammino cristiano fraterno e comune. Dove ci si riunisce nel nome di Gesù, Egli è lì (cfr Mt 18,20), e rivolgendo il suo sguardo di misericordia chiama a spendersi per l’unità e per l’amore. Che il volto di Dio splenda su di voi, sulle vostre famiglie e su tutta questa comunità!

Guarda il video dell'omelia

Molti tra i presenti gli africani, molti i non inglesi a rappresentare la comunità interetnica anglicana a Roma.
Terminato il rito con un inno della tradizione anglicana, e prima dello scambio dei doni, e dopo aver salutato il clero e alcuni fedeli anziani e malati, Papa Francesco ha risposto ad alcune domande.


Domanda: Durante le nostre liturgie, molte persone entrano nella nostra chiesa e si meravigliano perché "sembra proprio una chiesa cattolica!".
Molti cattolici hanno sentito parlare del Re Enrico VIII, ma sono ignari delle tradizioni anglicane e del progresso ecumenico di questo mezzo secolo.
Cosa vorrebbe dire loro circa il rapporto tra cattolici e anglicani oggi?

Risposta del Papa:

E’ vero, il rapporto tra cattolici e anglicani oggi è buono, ci vogliamo bene come fratelli! E’ vero che nella storia ci sono cose brutte dappertutto, e “strappare un pezzo” dalla storia e portarlo come se fosse un’“icona” dei [nostri] rapporti non è giusto. Un fatto storico deve essere letto nell’ermeneutica di quel momento, non con un’altra ermeneutica. E i rapporti di oggi sono buoni, ho detto. E sono andati oltre, dalla visita del primate Michael Ramsey, e ancora di più… Ma anche nei santi, noi abbiamo una comune tradizione dei santi che il vostro parroco ha voluto sottolineare. E mai, mai le due Chiese, le due tradizioni hanno rinnegato i santi, i cristiani che hanno vissuto la testimonianza cristiana fino a quel punto. E questo è importante. Ma ci sono stati anche rapporti di fratellanza in tempi brutti, in tempi difficili, dov’erano tanto mischiati il potere politico, economico, religioso, dove c’era quella regola “cuius regio eius religio” ma anche in quei tempi c’erano alcuni rapporti…

[salta collegamento audio]

Io ho conosciuto in Argentina un vecchio gesuita, anziano, io ero giovane lui era anziano, padre Guillermo Furlong Cardiff, nato nella città di Rosario, di famiglia inglese; e lui da ragazzino è stato chierichetto - lui è cattolico, di famiglia inglese cattolica – lui è stato chierichetto a Rosario nei funerali della Regina Vittoria, nella chiesa anglicana. Anche a quei tempi c’era questo rapporto. E i rapporti fra cattolici e anglicani sono rapporti - non so se storicamente si può dire così, ma è una figura che ci aiuterà a pensare - due passi avanti, mezzo passo indietro, due passi avanti mezzo passo indietro… E’ così. Sono umani. E dobbiamo continuare in questo.

C’è un’altra cosa che ha mantenuto forte il collegamento tra le nostre tradizioni religiose: ci sono i monaci, i monasteri. E i monaci, sia cattolici sia anglicani, sono una grande forza spirituale delle nostre tradizioni.

E i rapporti, come vorrei dirvi, sono migliorati ancora di più, e a me piace, questo è buono. “Ma non facciamo tutte le cose uguali…”. Ma camminiamo insieme, andiamo insieme. Per il momento va bene così. Ogni giorno ha la propria preoccupazione. Non so, questo mi viene da dirti. Grazie.

Domanda: Il suo predecessore, Papa Benedetto XVI, ha messo in guardia circa il rischio, nel dialogo ecumenico, di dare la priorità alla collaborazione dell’azione sociale anziché seguire il cammino più esigente dell'accordo teologico.
A quanto pare, Lei sembra preferire il contrario, cioè "camminare e lavorare" insieme per raggiungere la mèta dell'unità dei cristiani. Vero?

Risposta del Papa:

Io non conosco il contesto nel quale il Papa Benedetto ha detto questo, non conosco e per questo è un po’ difficile per me, mi mette in imbarazzo per rispondere… Ha voluto dire questo o no… Forse può essere stato in un colloquio con i teologi… Ma non sono sicuro. Ambedue le cose sono importanti. Questo certamente. Quale delle due ha la priorità?... E dall’altra parte c’è la famosa battuta del patriarca Atenagora - che è vera, perché io ho fatto la domanda al patriarca Bartolomeo e mi ha detto: “Questo è vero” -, quando ha detto al beato Papa Paolo VI: “Noi facciamo l’unità fra noi, e tutti i teologi li mettiamo in un’isola perché pensino!”. Era uno scherzo, ma vero, storicamente vero, perché io dubitavo ma il patriarca Bartolomeo mi ha detto che è vero. Ma qual è il nocciolo di questo, perché credo che quello che ha detto Papa Benedetto è vero: si deve cercare il dialogo teologico per cercare anche le radici…, sui Sacramenti…, su tante cose su cui ancora non siamo d’accordo... Ma questo non si può fare in laboratorio: si deve fare camminando, lungo la via. Noi siamo in cammino e in cammino facciamo anche queste discussioni. I teologi le fanno. Ma nel frattempo noi ci aiutiamo, noi, l’uno con l’altro, nelle nostre necessità, nella nostra vita, anche spiritualmente ci aiutiamo. Per esempio nel gemellaggio c’era il fatto di studiare insieme la Scrittura, e ci aiutiamo nel servizio della carità, nel servizio dei poveri, negli ospedali, nelle guerre… E’ tanto importante, è tanto importante questo. Non si può fare il dialogo ecumenico fermi. No. Il dialogo ecumenico si fa in cammino, perché il dialogo ecumenico è un cammino, e le cose teologiche si discutono in cammino. Credo che con questo non tradisco la mente di Papa Benedetto, neppure la realtà del dialogo ecumenico. Così la interpreto io. Se io conoscessi il contesto nel quale è stata detta quella espressione, forse direi altrimenti, ma è questo che mi viene da dire.

Domanda: La chiesa All Saints iniziò con un gruppo di fedeli britannici, ma è ormai una Congregazione internazionale con gente proveniente da diversi Paesi.
In alcune regioni dell’Africa, dell’Asia o del Pacifico, i rapporti ecumenici tra le Chiese sono migliori e più creativi che qui in Europa.
Cosa possiamo imparare dall'esempio delle Chiese del Sud del mondo?

Risposta del Papa:

Grazie. E’ vero. Le Chiese giovani hanno una vitalità diversa, perché sono giovani. E cercano un modo di esprimersi diversamente. Per esempio, una liturgia qui a Roma, o pensi a Londra o a Parigi, non è la stessa che una liturgia nel tuo Paese, dove la cerimonia liturgica, cattolica pure, si esprime con una gioia, con la danza e tante forme diverse proprie di quelle Chiese giovani. Le Chiese giovani hanno più creatività; e all’inizio anche qui in Europa era lo stesso: si cercava…. Quando tu leggi, per esempio, nella Didaché, come si faceva l’Eucaristia, l’incontro fra i cristiani, c’era una grande creatività. Poi crescendo, crescendo la Chiesa si è consolidata bene, è cresciuta a un’età adulta. Ma le chiese giovani hanno più vitalità e anche hanno il bisogno di collaborare, un bisogno forte. Per esempio io sto studiando, i miei collaboratori stanno studiando la possibilità di un viaggio in Sud Sudan. Perché? Perché sono venuti i Vescovi, l’anglicano, il presbiteriano e il cattolico, tre insieme a dirmi: “Per favore, venga in Sud Sudan, soltanto una giornata, ma non venga solo, venga con Justin Welby”, cioè con l’arcivescovo di Canterbury. Da loro, Chiesa giovane, è venuta questa creatività. E stiamo pensando se si può fare, se la situazione è troppo brutta laggiù… Ma dobbiamo fare perché loro, i tre, insieme vogliono la pace, e loro lavorano insieme per la pace… C’è un aneddoto molto interessante. Quando il Beato Paolo VI ha fatto la beatificazione dei martiri dell’Uganda – Chiesa giovane –, fra i martiri - erano catechisti, tutti, giovani - alcuni erano cattolici e altri anglicani, e tutti sono stati martirizzati dallo stesso re, in odio alla fede e perché loro non hanno voluto seguire le proposte sporche del re. E Paolo VI si è trovato in imbarazzo perché diceva: “Io devo beatificare gli uni e gli altri, sono martiri gli uni e gli altri”. Ma, in quel momento della Chiesa Cattolica, non era tanto possibile fare quella cosa. C’era appena stato il Concilio… Ma quella Chiesa giovane oggi celebra gli uni e gli altri insieme; anche Paolo VI nell’omelia, nel discorso, nella Messa di beatificazione ha voluto nominare i catechisti anglicani martiri della fede allo stesso livello dei catechisti cattolici. Questo lo fa una Chiesa giovane. Le Chiese giovani hanno coraggio, perché sono giovani; come tutti i giovani hanno più coraggio di noi… non tanto giovani!

E poi, la mia esperienza. Io ero molto amico degli anglicani a Buenos Aires, perché la parte di dietro della parrocchia della Merced era comunicante con la cattedrale anglicana. Ero molto amico del Vescovo Gregory Venables, molto amico. Ma c’è un’altra esperienza: nel nord dell’Argentina ci sono le missioni anglicane con gli aborigeni e le missioni cattoliche con gli aborigeni, e il Vescovo anglicano e il Vescovo cattolico di là lavorano insieme, e insegnano. E quando la gente non può andare la domenica alla celebrazione cattolica va a quella anglicana, e gli anglicani vanno alla cattolica, perché non vogliono passare la domenica senza una celebrazione; e lavorano insieme. E qui la Congregazione per la Dottrina della Fede lo sa. E fanno la carità insieme. E i due i Vescovi sono amici e le due comunità sono amiche.

Credo che questa sia una ricchezza che le nostre Chiese giovani possono portare all’Europa e alle Chiese che hanno una grande tradizione. E loro dare a noi la solidità di una tradizione molto, molto curata e molto pensata. E’ più facile, è vero, l’ecumenismo nelle Chiese giovani. E’ vero. Ma credo che - e ritorno alla seconda domanda – è forse più solido nella ricerca teologica l’ecumenismo in una Chiesa più matura, più invecchiata nella ricerca, nello studio della storia, della teologia, della liturgia, come è la Chiesa in Europa. E credo che a noi farebbe bene, ad ambedue le Chiese: da qui, dall’Europa inviare alcuni seminaristi a fare esperienze pastorali nelle Chiese giovani, si impara tanto. Loro vengono, dalle chiese giovani, a studiare a Roma, almeno i cattolici, lo sappiamo. Ma inviare loro a vedere, a imparare dalle Chiese giovani sarebbe una grande ricchezza nel senso che Lei ha detto. E’ più facile l’ecumenismo lì, è più facile, cosa che non vuol dire più superficiale, no, non è superficiale. Loro non negoziano la fede e l’identità. Quell’aborigeno ti dice nel nord Argentina: “Io sono anglicano”. Ma non c’è il vescovo, non c’è il pastore, non c’è il reverendo… “Io voglio lodare Dio la domenica e vado alla cattedrale cattolica”, e viceversa. Sono ricchezze delle Chiese giovani. Non so, questo mi viene da dirti.

***

Al termine i doni: la parrocchia anglicana regala pasti per i senza tetto e bibbie, che saranno mandate a nome del Papa. E una torta tradizionale per la ultima domenica prima della Quaresima.

Gli ultimi saluti sulla porta con i vescovi cattolici e anglicani che hanno parteciapato e una piccola folla di curiosi che attendeva l'uscita del Papa.


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«Bambini d'Italia». Anche il Papa firma per dare la cittadinanza ai piccoli stranieri

«Bambini d'Italia». 
Anche il Papa firma per dare la cittadinanza ai piccoli stranieri


È quella di papa Francesco la prima firma di adesione al manifesto del Sermig. «È italiano chi nasce e va scuola in Italia»

Due manifesti e una petizione del Sermig con le firme dei bambini perché il Parlamento italiano approvi la legge che concede la cittadinanza ai minori nati in Italia da genitori stranieri e regolarmente residenti o a chi è arrivato nel nostro Paese e vi ha concluso un ciclo di studi. Attualmente è in attesa di venire votato dal Senato un disegno di legge approvato alla Camera, ma in settimana su questa riforma della cittadinanza con il cosiddetto 'ius soli' temperato – o 'ius culturae' – si sono addensate nubi dense e si rischia che anche in questa legislatura non si arrivi a nulla. L’iniziativa 'Bambini d’Italia' firmata da tanti bambini, a partire da quelli di Porta Palazzo, l’angolo più multietnico di Torino dove sorge l’Arsenale della Pace - casa del Sermig - non ha colore politico, anzi vuole unire le persone di buona volontà di ogni schieramento con un contributo di dialogo costruttivo, in un contesto politico che molte volte tende a dividere senza porre freno ai pericolosi segnali di odio crescente.

Il manifesto - firmato da Olivero, cui ha aderito papa Francesco - ribadisce un principio chiave tuttora disatteso: tutti i bambini che nascono e vanno a scuola in Italia sono italiani, anche se i loro genitori sono stranieri. Questo deve essere riconosciuto. Il testo motiva che «così ameranno di più la terra dove sono nati. Non cresceranno sentendosi diversi ed esclusi con dentro un odio sottile che prima o poi può esplodere. Disinneschiamo un odio che fa male a tutti. Cominciamo dai bambini perché si sentano fratelli e sorelle d’Italia». «Abbiamo scritto questo pensiero – spiega Olivero – e la creatività dell’ agenzia pubblicitaria Armando Testa lo ha trasformato nel manifesto della campagna 'bambini d’Italia'. Non abbiamo pensato a una raccolta firme, ma l’hanno sottoscritto i bambini accolti all’Arsenale della Pace anche se non sono ancora italiani. Il loro desiderio era che il Papa fosse il primo e unico firmatario tra gli adulti; sarebbe stato la persona più adatta perché il suo insegnamento porta il Vangelo nelle nostre vite e ha grande rispetto per chi non ha la nostra fede. Il 31 gennaio mi è venuto a trovare il cardinale Rodriguez Maradiaga, uno dei suoi collaboratori. Non ci conosceva, quando è entrato all’Arsenale lo ha definito un’opera di Dio perché ha una spiritualità che unisce e non divide. Gli ho fatto vedere il manifesto 'Bambini d’Italia' e gli ho espresso il desiderio dei nostri bambini che il Papa fosse il primo a firmarlo. Lo avrebbe incontrato e glielo avrebbe sottoposto. Il Papa l’ha firmato subito».

Che strada percorrerà il manifesto? «Sarà uno dei momenti chiave dell’Appuntamento dei Giovani della Pace che si terrà a Padova il 13 Maggio 2017 e che avrà per tema 'L’odio non ci fermerà. Ripartiamo dall’amore'. Non vogliamo dimenticare che solo alcuni decenni fa in Europa l’odio ha ucciso milioni di persone nei campi di sterminio e anche l’oggi è intriso di violenza e di odio». «Vorremmo poi portare questo testo al Capo dello Stato – conclude Olivero – al Presidente del Consiglio e ai Presidenti delle Camere. Dobbiamo agire tutti insieme per i bambini e a partire dai bambini. Se uno si sente trattato da straniero, agisce da estraneo. Vorremmo cancellare per sempre parole come 'nemico', 'infedele', 'diverso'. Nel secolo scorso almeno 20 milioni di europei sono emigrati per dare la possibilità di vivere con dignità ai familiari che restavano. Oggi gli immigrati che varcano i nostri confini non devono spaventarci ma devono sollecitarci ad un’accoglienza ben organizzata che ne faciliti l’integrazione».
(fonte: Avvenire)


lunedì 27 febbraio 2017

«La qualità della vita all’interno di una società si misura, in buona parte, dalla capacità di includere coloro che sono più deboli e bisognosi» Papa Francesco incontra la Comunità di Capodarco

 25 febbraio 2017 
 Udienza alla Comunità di Capodarco 

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Tanta gioia tra i circa 2600 partecipanti all’incontro del Papa con la Comunità di Capodarco, accompagnati dal fondatore, don Franco Monterubbianesi. Presenti operatori e volontari, che lavorano al fianco di disabili ed emarginati, e persone che - grazie al loro aiuto - hanno ritrovato la speranza di vivere, riuscendo a reinserirsi nella società.
Da mezzo secolo la comunità fondata da don Franco Monterubbianesi e presieduta da don Vinicio Albanesi, che hanno tenuto un breve discorso introduttivo, lavora per includere i più svantaggiati dal punto di vista fisico, psichico e sociale. Il fondatore ha chiamato accanto a sé, in rappresentanza della comunità, una mamma, un papà e una giovane.



Le 3 richieste di don Albanesi

«Abbiamo sofferto molto lo scarto» ha detto nel suo intervento don Albanesi citando un’espressione usata spesso dal Papa: la cultura dello scarto che inquina i nostri giorni, emarginando ed escludendo i più deboli quasi fossero dei rifiuti. Davanti a un ragazzo affetto da grave handicap, e la cui unica consolazione era appoggiarsi al braccio della madre, don Albanesi ha ricordato di aver detto a se stesso: «Questa vita vale come la vita del Papa».

Ed è forse con riferimento a quel pensiero che Francesco ha esordito, nell'unica aggiunta a braccio al testo scritto: «Sono lieto di quello che ho sentito, molto lieto». Ma avrebbe potuto riferirsi anche alle 3 richieste che don Albanesi, con suo parlare diretto, gli ha fatto: una riflessione, intesa come un testo a sua firma, sulla dignità delle persone; un'azione che riguardi l'iniqua distribuzione delle ricchezze; infine di leggere «almeno l'indice» del libro Il diaconato alle donne che gli ha donato. «Abbiamo aspettato 50 anni per incontrare Lei» aveva esordito. E ha concluso: «Non si curi di quanti vanno cincischiando sui dubia». Aggiungendo: «Le vogliamo bene, veramente bene».


Al termine del suo discorso papa Francesco ha invitato a recitare insieme un’Ave Maria, pregando quella Madre che a tutti dà forza. Poi si è intrattenuto per circa mezz'ora stringendo mani e salutando i presenti, che hanno ricambiato l'abbraccio con cori e applausi.

Il testo integrale del discorso di Papa Francesco

Cari fratelli e sorelle,

sono lieto di questo nostro incontro e lieto di quello che ho sentito, molto lieto, e vi saluto tutti con affetto. Ringrazio di cuore Don Franco Monterubbianesi, fondatore della vostra Comunità, e Don Vinicio Albanesi, attuale presidente, per le loro parole; e ringrazio voi che ci avete regalato le vostre testimonianze.

La Comunità di Capodarco, articolata in numerose realtà locali, ha celebrato l’anno scorso il suo 50° anniversario. Con voi, ringrazio il Signore per il bene compiuto in questi anni al servizio delle persone disabili, dei minori, di quanti vivono situazioni di dipendenza e di disagio, e delle loro famiglie. Voi avete scelto di stare dalla parte di queste persone meno tutelate, per offrire loro accoglienza, sostegno e speranza, in una dinamica di condivisione. In questo modo avete contribuito e contribuite a rendere migliore la società.

La qualità della vita all’interno di una società si misura, in buona parte, dalla capacità di includere coloro che sono più deboli e bisognosi, nel rispetto effettivo della loro dignità di uomini e di donne. E la maturità si raggiunge quando tale inclusione non è percepita come qualcosa di straordinario, ma di normale. Anche la persona con disabilità e fragilità fisiche, psichiche o morali, deve poter partecipare alla vita della società ed essere aiutata ad attuare le sue potenzialità nella varie dimensioni. Soltanto se vengono riconosciuti i diritti dei più deboli, una società può dire di essere fondata sul diritto e sulla giustizia. Una società che desse spazio solo alle persone pienamente funzionali, del tutto autonome e indipendenti non sarebbe una società degna dell’uomo. La discriminazione in base all’efficienza non è meno deplorevole di quella compiuta in base alla razza o al censo o alla religione.

In questi decenni, la vostra Comunità si è costantemente messa in ascolto attento e amoroso della vita delle persone, sforzandosi di rispondere ai bisogni di ciascuno tenendo conto delle loro capacità e dei loro limiti. Questo vostro approccio ai più deboli supera l’atteggiamento pietistico e assistenzialistico, per favorire il protagonismo della persona con difficoltà in un contesto comunitario non chiuso in se stesso ma aperto alla società. Vi incoraggio a proseguire su questa strada, che vede in primo piano l’azione personale e diretta dei disabili stessi. Di fronte ai problemi economici e alle conseguenze negative della globalizzazione, la vostra Comunità cerca di aiutare quanti si trovano nella prova a non sentirsi esclusi o emarginati, ma, al contrario, a camminare in prima linea, portando la testimonianza dell’esperienza personale. Si tratta di promuovere la dignità e il rispetto di ogni individuo, facendo sentire agli “sconfitti della vita” la tenerezza di Dio, Padre amorevole di ogni sua creatura.

Voglio ancora ringraziare per la testimonianza che date alla società, aiutandola a scoprire sempre più la dignità di tutti, a partire dagli ultimi, dai più svantaggiati. Le istituzioni, le associazioni e le varie agenzie di promozione sociale sono chiamate a favorire l’effettiva inclusione di queste persone. Voi lavorate per questo scopo con generosità e competenza, con l’aiuto coraggioso di famiglie e volontari, che ci ricordano il significato e il valore di ogni esistenza. Accogliendo tutti questi “piccoli” segnati da impedimenti mentali o fisici, o da ferite dell’anima, voi riconoscete in essi dei testimoni particolari della tenerezza di Dio, dai quali abbiamo molto da imparare e che hanno un posto privilegiato anche nella Chiesa. Di fatto, la loro partecipazione alla comunità ecclesiale apre la via a rapporti semplici e fraterni, e la loro preghiera filiale e spontanea ci invita tutti a rivolgerci al nostro Padre celeste.

La vostra Associazione ha avuto origine dai pellegrinaggi ai santuari di Lourdes e di Loreto, nei quali don Franco intuì il modo di poter valorizzare le risorse umane e spirituali insite in ogni persona diversamente abile. Nella vostra attività, tanto preziosa per la Chiesa e per la società, la Vergine Madre vi ha sempre accompagnato e continua a farlo, aiutandovi a ritrovare ogni volta nuove energie e a conservare sempre lo stile del Vangelo, la tenerezza, la premura, la vicinanza, e anche il coraggio, lo spirito di sacrificio, perché non è facile lavorare nel campo del disagio personale e sociale.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio ancora della vostra visita. Vi benedico e vi accompagno con la preghiera, perché le vostre comunità continuino a camminare con gioia e con speranza. E anche voi, per favore, pregate per me. Grazie!

E vi invito a pregare nostra Madre, quella che dà forza alle mamme, alle donne, a voi, a tutti noi che lavoriamo. [Ave Maria]

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Caro Dj Fabo... c'è posta per te!



Caro Dj Fabo... 
c'è posta per te!


Fabiano Antoniani, 39 anni, meglio conosciuto come Dj Fabo, è cieco e tetraplegico in seguito a un incidente. Giorni fa si era rivolto a presidente Mattarella chiedendo di lasciarlo morire. Oggi è arrivato in una clinica svizzera dove si sta sottoponendo alle visite mediche previste dai protocolli per l'eutanasia. Tuttavia potrebbe ancora cambiare idea. Don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capodarco, che ha accompagnato tanti ragazzi sino alla morte naturale, gli rivolge un messaggio dal sito di Famiglia Cristiana.

È notizia di queste ore: Fabiano Antoniani, più conosciuto come dj Fabo, ha chiesto a Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni di accompagnarlo in una clinica svizzera, in cui si sta sottoponendo a visite mediche e sta valutando di porre fine alla sua vita con l’eutanasia. Diventato tetraplegico e cieco in seguito a un incidente stradale successo nel 2014, il 39enne aveva lanciato un video sui social con la voce della sua fidanzata per chiedere di morire legalmente. Informato della notizia, don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco che da 50 anni accoglie persone disabili, rivolge a Fabo questo messaggio:

«Caro Fabo, non ti conosco personalmente ma ti sono vicino in questo momento. Da tanti anni vivo insieme a persone con disabilità gravi. Nella Comunità di Capodarco (Fermo) abbiamo avuto esperienza di ragazzi e ragazze, giovani come te o più di te, che andavano verso la morte e l’esperienza dice che la cosa più brutta in queste fasi è la solitudine.

Se la persona è circondata di affetti e presenza, chiede di essere accompagnata fino alla fine, con tutte le cure possibili, ma in modo naturale, perché comunque ama la vita. Quando questa spinta viene meno, è per il senso di solitudine, inutilità, vuoto che si sperimenta, anche se si ha vicino l’affetto di familiari e di persone care.

Se sei arrivato alla decisione di andare in Svizzera per mettere fine alla tua vita, ti senti solo. Sarebbe stato necessario un gruppo più consistente accanto a te, un’esperienza di vita intensa anche con la disabilità che hai acquisito a causa dell’incidente.

Se il calore della vita viene meno, la morte sta bussando alla tua porta, ma la morte ha comunque una sua dignità quando arriva naturalmente. Occorre un’infinità di compassione e comprensione in questi momenti.

Mi dispiace molto che tu abbia scelto di lasciarti andare, anche se ancora non lo hai deciso definitivamente, ma capisco che quando uno si sente inutile e allo stremo delle forze possa vedere la morte come una liberazione.

Ti posso raccontare l’esperienza di una ragazza della nostra Comunità che ci ha lasciato: ci ha messo otto giorni per morire, assistita con amore, con il coinvolgimento di un intero gruppo accanto a lei. Ed è spirata serenamente. Si va verso la morte serenamente se nella vita c’è un significato che possa dare non dico speranza, ma sicuramente pace. Il messaggio che do a chi ti sta vicino è di mettere sempre vita restando a fianco a chi sta soffrendo come te.

Se ti avessi conosciuto prima di questi momenti, io e la mia Comunità, probabilmente non avresti invocato la morte.

Ti abbraccio, don Vinicio».

(fonte: Famiglia Cristiana «CARO FABO, SE TI AVESSI CONOSCIUTO PRIMA, FORSE NON AVRESTI INVOCATO LA MORTE. TI ABBRACCIO» di Laura Badaracchi del 26/02/2017)

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Non parla, non cammina, non fa nulla da solo a causa di un'asfissia alla nascita. Ma all'uomo che chiede l'eutanasia dice (sfiorando una tastiera): "Noi possiamo pensare e il pensiero cambia il mondo"
Nel blog di Matteo c'è tanta luce


Tenere dietro alla velocità con cui la mano di Matteo vola da una lettera all’altra sulla tavoletta di legno è impossibile per chi non sia allenato come sua madre: aveva 6 anni quando ha iniziato a comunicare in questo modo con il mondo, dimostrando che dietro il presunto vegetale (così lo definivano i neurologi) c’era un’acuta ironia, e da allora è diventato un razzo. Mamma Ivana gli regge il polso e legge ad alta voce i pensieri che lui "scrive". Ed è così che il ragazzo si presenta accogliendoci nella sua casa di Milano, zona San Siro: «Mi chiamo Matteo Nassigh, ho 19 anni e sono uno che pensa». Non c’è male.
Matteo e papà Aldo
"Anch'io ho voluto morire"

Come le antiche dattilografe, tutto guarda meno che la "tastiera", non ne ha bisogno. Evita i preamboli perché – dice – «ho troppe cose importanti da dirle e ho paura di non fare in tempo». È lui ad aver convocato la giornalista, «l’ho cercata quando ho letto l’appello di dj Fabo, l’uomo che chiede l’eutanasia dopo che un incidente lo ha reso tetraplegico e cieco. Voglio rispondergli perché io conosco bene la fatica di vivere in un corpo che non ti obbedisce in niente. Voglio dirgli che noi persone cosiddette disabili siamo portatori di messaggi molto importanti per gli altri, noi portiamo una luce. Anch’io a volte ho creduto di voler morire, perché spesso gli altri non ci trattano da persone pensanti ma da esseri inutili". 

Matteo con il fratello Iacopo e i genitori, Ivana e Aldo

Un'associazione "per curare chi cura noi"

"È vero - continua l'appello del ragazzo - noi due non possiamo fare niente da soli, ma possiamo pensare e il pensiero cambia il mondo. Fabo, noi siamo il cambiamento che il mondo chiede per evolvere! Tieni duro». 
Pesa 25 chili Matteo, è inchiodato alla carrozzella, non cammina, non parla, non fa niente da solo... o meglio, da solo pensa tantissimo, è una fucina di idee che si accavallano, anche quando non c’è nessuno lì con la tavoletta alfabetica a tradurle in voce... Giorni fa, tenendo il pennarello con la bocca, ha firmato il rogito della casa che ha acquistato con i soldi del risarcimento avuto dall'ospedale per quel parto sbagliato: sarà la sede della sua associazione "Per la cura di chi cura", nata per "cambiare lo sguardo verso noi disabili. Anche noi siamo perfetti, se ci lasciate liberi di essere come siamo, diversi, e di non dover diventare simili a voi".
In viaggio in Scozia l'estate scorsa

(fonte: Avvenire L'appello di Matteo, 19 anni, disabile gravissimo. "Dj Fabo, non andare a morire" di Lucia Bellaspiga del 25/02/2017)


"La dignità del fine vita" di Enzo Bianchi

La dignità del fine vita
di Enzo Bianchi
Nancy Borowick, A Life in Death (Una vita nella morte),
progetto fotografico premiato al World Press Photo del 2016.
Quando Samuel Huntington teorizzò lo “scontro di civiltà”, su queste colonne osai preconizzare che nel nostro paese non ci sarebbe stato questo scontro, ma che avremmo vissuto invece uno scontro di etiche: fino a qualche decennio fa, infatti, l’etica cristiana cattolica era in larga parte ispiratrice anche dell’etica laica, ma nell’epoca del pluralismo sono apparse nella nostra società etiche diverse. Così in questi anni assistiamo a un confronto aspro, segnato da ideologie e privo di quella serenità che sarebbe auspicabile per compiere un cammino di umanizzazione condiviso da appartenenti e non appartenenti a religioni diverse.

Nel nostro paese lo scorso anno il tema divisivo era quello delle unioni civili e il mondo cattolico militante ha dato battaglia fino all’ultimo, subendo poi l’esito di una legge da esso ritenuta in contrasto con l’etica cattolica. Attualmente lo scontro sta avvenendo, almeno per ora con toni meno accesi, attorno alla prevista legislazione sul testamento biologico e sui trattamenti di fine vita. Un confronto, va detto con chiarezza, che resta difficile in un paese dove manca una cultura dell’alleviamento del dolore, dove l’accesso alle cure palliative resta lacunoso e in alcune aree praticamente assente, in una società in cui non c’è informazione né educazione sul morire e dove si è ormai smarrita la sapienza e la naturalezza con cui in passato si affrontava questa sfida. I militanti del diritto all’eutanasia così come quelli della vita da conservare a ogni costo per ora non sembrano impegnati a fornire un discorso convincente e articolato, ma paiono preoccupati gli uni che ci sia una legge in materia, gli altri che questa invece non sia assolutamente emanata.

Quando si ascolta “la gente”, si constata una paura sorda e muta nell’affrontare questo argomento. C’è sì rimozione della morte, ma soprattutto timore grande per ciò che potrà accadere, per mancanza di fiducia nei medici e nelle strutture sanitarie: i più temono un’estensione abusiva del diritto all’eutanasia, una sorta di pratica della morte procurata per ragioni economiche, cioè contro le persone anziane a carico della collettività; ma fa paura anche l’idea di finire nelle mani di persone che decidono senza ascoltare le ragioni del paziente e dei famigliari e che vogliono prolungare le cure secondo il loro giudizio o per interessi estranei al morente. Oggi c’è coscienza del diritto a morire con dignità, soffrendo il meno possibile e questa, unita alla centralità acquisita dal soggetto umano nella nostra cultura, richiede sia il testamento biologico sia una normativa sui trattamenti di fine vita.

Da parte mia ritengo necessario e urgente che ai cittadini sia consentito di redigere un “testamento biologico” o una “dichiarazione anticipata” avente rilevanza legale che precisi le condizioni auspicate per il proprio fine vita. Purtroppo finora una procedura di questo tipo ha avuto forti opposizioni da alcuni settori della chiesa italiana, ma si dovrebbe prendere atto che invece i vescovi delle conferenze episcopali sia della Germania sia della Svizzera hanno invitato i loro fedeli a redigere un biotestamento cristiano, ispirandone addirittura le modalità: si tratterebbe in particolare di specificare se si accetta o meno la somministrazione di farmaci per lenire il dolore, anche quando questi avessero come effetto collaterale di abbreviare la vita del paziente, e di indicare se si desidera che i trattamenti per il prolungamento della fase terminale della vita siano tralasciati o sospesi quando la loro efficacia fosse ridotta al semplice ritardare il momento del decesso.

La contrapposizione tra il considerare la nutrizione e idratazione artificiale quale sostegno vitale da somministrarsi sempre e comunque e, d’altra parte, il ritenerle cure che possono essere sospese, è a mio avviso radicalizzata e artificiosa. Sappiamo tutti che nutrizione e idratazione sono sostegni vitali, ma in alcune circostanze – come quando richiedono un intervento chirurgico o un atto medico invasivo – possono diventare gravose, sproporzionate e causa di ulteriori sofferenze, fino a configurarsi come accanimento terapeutico, cosa che richiederebbe la loro sospensione. A questo punto vi è il rischio di introdurre una casistica – tra l’altro soggetta a conoscenze terapeutiche e risorse tecniche in continua evoluzione – nella quale la morale non considererebbe innanzitutto il soggetto morente né il suo dolore, bensì la pertinenza di un trattamento specifico rispetto alla legge generale. L’etica cristiana dice no a cure mediche sproporzionate, ben sapendo che la legge non può normare tutte le situazioni, presenti e future. Si tratterà invece di valutare caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del malato, ascoltando la sua volontà e la propria coscienza. Già Pio XII in un’allocuzione ai medici cattolici nel 1957 distingueva tra mezzi “ordinari” e “straordinari” per conservare la vita e dichiarava diritto del malato la rinuncia all’accanimento terapeutico. Per questo anche il Catechismo di Giovanni Paolo II afferma che “l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima … Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire” (CCC 2278). Ne consegue che il ricorso alla sedazione palliativa continua, quando sono state tentate senza successo tutte le risorse mediche disponibili, è moralmente possibile perché l’obiettivo è l’alleviamento del dolore, non l’eutanasia, che è sempre precisa volontà di mettere fine alla vita del paziente.

Appare evidente a tutti che qui il confine tra etica cristiana ed etica laica è davvero sottile e si può innestare da entrambe le parti la tentazione dell’ipocrisia che scatena il giudizio e la condanna. Per questo risulta importante l’alleanza tra il paziente, il suo fiduciario, il medico e i familiari: il malato non sia lasciato solo a decidere la propria sorte – con l’eventualità di innescare il ricorso al suicidio assistito – ma interagiscano con lui innanzitutto il medico, che può discernere “con scienza e coscienza” le reali possibilità di vita e di morte del malato, e poi i familiari, le persone vicine al paziente, a cominciare da chi il malato ha eventualmente indicato come suo rappresentante nel testamento biologico. Un’alleanza nella quale il malato deve avere la priorità, con la sua sofferenza e il suo desiderio espresso anche anticipatamente, e dove entrano in gioco la coscienza dei medici e dei familiari. Ognuno di noi non è solo “una vita” determinata da parametri biologici, ma è una persona con relazioni, comunicazione, affetti, e c’è una qualità della vita che non può essere ridotta a quantità dei giorni.

Certo, nessuno dovrebbe essere obbligato a redigere il proprio testamento biologico o a tratteggiare la “pianificazione anticipata delle cure”, ma la legge sappia accogliere chi vuole dichiarare anticipatamente questa scelta, favorisca l’alleanza medico-paziente-fiduciario che lascia spazio alla coscienza e garantisca cure palliative specialistiche e di qualità accessibili a tutti, indipendentemente dal reddito o dal luogo di residenza. Ne va della qualità della vita di ciascuno, malato o sano che sia.


domenica 26 febbraio 2017

POSTMODERNITÀ: CHANCE PER UN NUOVO INCONTRO CON DIO Nell’era della paura di Lauenroth Herbert

POSTMODERNITÀ: 
CHANCE PER UN NUOVO INCONTRO CON DIO
Nell’era della paura
di Lauenroth Herbert,

Responsabile del movimento 
dei Focolari in Germania


Riflessione proposta al 4° Congresso internazionale della rete ecumenica “Insieme per l’Europa” con la partecipazione di membri di oltre 100 Movimenti e Comunità appartenenti a varie Chiese che si è svolto Dal 30 giugno al 2 luglio scorso si è svolto a Monaco di Baviera

Inizio queste mie riflessioni sul tema della paura – e specialmente della paura in Europa – con due immagini suggestive, una biblica e l’altra secolare.

Nel libro della Genesi Dio si rivolge all’uomo, in un momento drammatico, con queste parole: «Adamo, dove sei?». La domanda è indirizzata a uno che – pieno di vergogna e prigioniero della paura – ha cercato rifugio nella boscaglia per sottrarsi così allo sguardo di Dio, conscio della sua nudità esistenziale e della sua miserabilità.

L’immagine ben si adatta a descrivere in termini piuttosto drastici la nostra attuale situazione europea: il nostro continente si barrica, si trincera nel suo presente che sembra senza vie d’uscita.

L’Europa versa dunque in questo sottobosco, schiava dei suoi limiti e della storia delle sue colpe. Questo sottobosco è rappresentato da Idomeni, alla frontiera della Macedonia, dal filo spinato alla frontiera tra l’Ungheria e la Serbia, ma anche dalle tante situazioni di emarginazione all’interno delle nostre società.

Applicando questo scenario biblico all’Europa che si rinchiude come una “fortezza” per mettersi al riparo dai migranti, quest’immagine indica ancora un’altra verità: ci pone davanti agli occhi il “sovrano europeo” come il vero senza tetto, senza patria, che vive la più fatale di tutte le fughe: quella da se stesso.

L’Europa ha bisogno quindi di sentire nuovamente questa chiamata di Dio che la interroga circa il suo destino, la sua missione e la sua responsabilità per sé e per il mondo: «Adamo / Europa, dove sei?».

Questa immagine di un’angustia esistenziale dalla quale solo Dio può liberare, ha un suo riscontro nelle visioni di smarrimento cosmico del soggetto moderno in un universo indifferente ed inospitale, secondo l’espressione del filosofo e matematico Blaise Pascal: «Il silenzio eterno di quegli spazi infiniti mi atterrisce». Si tratta di un senso di orrido e di spaesamento che infonde terrore all’essere umano abbandonato a se stesso e isolato e che è stato descritto nella storia dell’Europa come “perdita del centro” ovvero come “spaesamento metafisico”.


La paura può dischiudere nuovi spazi all’esperienza umana

La paura di perdere se stessi e il mondo può dischiudere però al contempo un nuovo spazio all’esperienza umana.

Il poeta e primo presidente dell’allora Cecoslovacchia Vaclav Havel, guardando in retrospettiva le rivoluzioni pacifiche degli anni ‘89-’90 nei Paesi mitteleuropei, a suo tempo parlava della paura come “paura della libertà”:

«Eravamo come prigionieri che si erano abituati alla prigione, e che poi, restituiti ad un tratto alla libertà tanto desiderata, non sapevano come usufruirne, disperati perché di continuo dovevano operare loro scelte e assumersi la responsabilità per la propria vita».

Si tratta – così Havel – di affrontare questa paura, perché in tal modo essa «in definitiva può sprigionare in noi anche nuove attitudini. È proprio la paura della libertà che alla fine può insegnarci ad interpretare rettamente la nostra libertà. Ed è proprio la paura del futuro che può costringerci a far tutto il possibile perché il futuro diventi migliore»1.

Il grande teologo protestante Paul Tillich descrive la paura come esperienza fondamentale dell’esistenza umana: «Il coraggio di esistere – afferma – ha le sue radici in quel Dio che appare quando si è dileguato Dio nella paura del dubbio»

Vale a dire: solo l’esperienza della paura, come perdita di un tipo d’immagine di Dio, dell’essere umano e del mondo un tempo in voga e considerata immutabile, sprigiona ciò che Tillich ha chiamato, appunto, il “coraggio di esistere”. Il Dio vero – divino – compare per così dire nel cuore della paura e solo lui ci può liberare dalle paure. È proprio quest’esperienza a introdurre la persona umana negli orizzonti più profondi dell’esistenza. Dio si manifesta come volto dell’altro nell’apparente assenza di volto e di storia del mondo.

Discendere negli inferi del mondo
Si tratta quindi di discendere in questi “spazi inframondani” fatti di paure e smarrimenti personali e collettivi, per incontrare in essi quel Dio che ci salva.

Non potrò mai dimenticare la mia visita nell’autunno scorso a Yad Vashem, il memoriale della Shoah vicino a Gerusalemme. Stordito avanzavo attraverso questo complesso architettonico che ha del labirinto, fino a giungere al “monumento per i bambini”, un ambiente sotto terra in cui la luce delle candele viene riflessa da specchi. In questo ambiente oscuro nel quale risuonano voci senza corpo che evocano senza sosta i dati di vita delle vittime innocenti, ho provato una nuova, profonda solidarietà pur immerso in questa paura primordiale, così fortemente iscritta in noi, che ci fa temere non solo fisicamente di venir annientati ma di essere cancellati anche dalla memoria della cultura. La testimonianza recata da quel luogo è diventata così mia esperienza personale: dare un luogo al nome smarrito, custodire la memoria del nome di Dio e delle sue creature. Ho scritto nel libro degli ospiti una frase del profeta Isaia ed ho espresso così sia il mio turbamento sia la mia speranza nell’indelebile vicinanza di un Dio Padre: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni» (Is 43, 1).

A proposito delle grandi narrazioni europee sulla paura, il filosofo e teologo ceco Tomás Hálík descrive un’esperienza analoga:

«L’audace progetto dell’unità europea non lo stiamo costruendo su terra inesplorata o non seminata. Lo costruiamo su una terra nella quale riposano tesori dimenticati e ruderi bruciati, una terra in cui sono sepolti dèi, eroi e criminali, e dove giacciono pensieri arrugginiti e bombe inesplose. Occorre di tempo in tempo darci una mossa e guardare il sottosuolo dell’Europa, i suoi inferi, come Orfeo che è andato in cerca di Euridice, come il Cristo messo a morte, disceso da Abramo e dai patriarchi dell’Antico Testamento»

È nel punto “zero” che si apre a sorpresa il Cielo
Per me queste diverse “discese negli abissi della paura” trovano un punto di convergenza nel racconto del battesimo di Gesù come ci viene riferito da Matteo: «Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”» (Mt 3, 16-17).

Si tratta di discendere con Cristo per raggiungere quel punto “zero” sopra il quale a sorpresa si spalanca il Cielo. E qui si manifesta l’intrinseca legge della vita divina: «Ciò che viene dall’alto deve germogliare dalla terra»

In tal modo si instaura in, con e per Gesù quella solidale comunione in cui le persone si riconoscono non soltanto come “fratelli e sorelle” ma anche come “figli e figlie di Dio”, una comunione, pertanto, nella quale “dignità umana” e “somiglianza a Dio” formano un’inscindibile unità.
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CRISTIANESIMO E ISLAM PER UNA CITTÀ PLURALE Autorità spirituale, fonti e prassi. (VIDEO)

CRISTIANESIMO E ISLAM PER UNA CITTÀ PLURALE 
Autorità spirituale, fonti e prassi.


Messina - Secondo appuntamento del ciclo di incontri di dialogo tra cristianesimo e islam, sul tema "Autorità spirituale, fonti e prassi", relatori: prof. Francesco Barone, dottore in Storia medievale, cultore della materia presso l’Università degli Studi di Catania per gli insegnamenti di Archeologia medievale e Storia degli insediamenti medievali, rappresentante della Comunità islamica di Catania, e S.E. Mons. Domenico Mogavero, Vescovo di Mazara del Vallo, dottore in diritto canonico ha ricoperto molteplici incarichi presso la CEI, dal 2007 al 2010 è stato Presidente del Consiglio per gli Affari Giuridici. A tutt’oggi è vescovo delegato per la Carità e per le Migrazioni della Conferenza Episcopale Siciliana. L'incontro si é svolto giovedì 23 febbraio 2017, alle ore 18, presso la chiesa “SS. Annunziata dei Catalani” A moderare l’incontro sarà il prof. Andrea Nucita, ricercatore presso l’Università degli Studi di Messina e membro della Comunità di S. Egidio


"... Dobbiamo smetterla di pensare che sia impossibile la coesistenza, la convivenza pacifica tra cattolici ed islamici ... è possibile oggi che noi sperimentiamo rapporti veri e belli, io conosco diversi Imam di varie parti dell'italia e vi assicuro che un'esperienza esaltante quella di potersi incontrare con persone che dal punto di vista religioso hanno una sensibilità e una finezza spirituale che ci fa proprio incontrare proprio perché riscontriamo nel nome dell'unico Dio nella fede che ci unisce incontriamo dei caratteri che ci aiutano ad andare avanti e a testimoniare a tutti che Dio non può essere nemico di nessuno che la fede non è qualcosa che in qualche modo diminuisce o attenta alla libertà delle persone e che è possibile incontrarsi tra persone che professano esperienze diverse senza doversi far necessariamente condizionare dal dubbio o dal pregiudizio o dal vezzo di doversi trattare per forza da nemici. ..." (Mons. Domenico Mogavero, Vescovo di Mazara del Vallo)

"... Il Profeta, nel Corano, era solito dire, seguendo Allah, quando discutete con i cristiani, poneva già la questione del dialogo interconfessionale, fatelo nel migliore dei modi, con le più belle maniere e venite ad una parola comune tra di voi, cioè non andate a cercare gli elementi che dividono dietro i quali c'è un disegno divino che non spetta all'uomo scrutare, ma cercate piuttosto quello che avete in comune, quello che ci unisce e certamente il legame con Dio. Il Corano ripete più volte il vostro Dio e il nostro Dio è un unico Dio non solo comprensione con i cristiani invitandoli a cercare insieme ciò che unisce le due religioni. ..." (prof. Francesco Barone, rappresentante della Comunità islamica di Catania)



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Dibattito

(Fonte video: CFranciò) 


Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - VIII Domenica del Tempo Ordinario / A






Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)





Preghiera dei Fedeli