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sabato 25 marzo 2017

Verso Gerusalemme. Nel mistero della Pasqua del Signore: At 19,21-21,16 (Alberto Neglia)

Verso Gerusalemme. 
Nel mistero della Pasqua del Signore: 
At 19,21-21,16 
a cura di P. Alberto Neglia 
(VIDEO INTEGRALE)


Sesto incontro dei 
MERCOLEDÌ DELLA BIBBIA 2017
promossi dalla


Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto 



08.03.2017

1. Salire a Gerusalemme
Paolo è ad Efeso da tre anni. A partire da At 19,21, c'è come una svolta nella vita di Paolo: «Dopo questi fatti, Paolo decise nello Spirito di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme, dicendo: “Dopo essere stato là, devo vedere anche Roma”». 
Questo proposito di salire a Gerusalemme, credo vada riletto come un desiderio di ripercorrere la storia della salvezza come vicenda personale. Gerusalemme è già la meta del viaggio delle tribù del Signore (Sal 120-134). In questo viaggio c'è una memoria prossima di un pellegrino per eccellenza: Gesù. Gerusalemme, infatti è il luogo al quale è salito Gesù (Lc 9,51). Nei capitoli precedenti Paolo è autore di imprese all'esterno, a partire da 19,21 è proiettato alla ricerca della sua identità. Il salire a Gerusalemme, quindi ha un valore sacramentale. È volontà di convertirsi, di immergersi ancora nel mistero di Cristo. Pare che Paolo sia alla ricerca della sua identità. È un peregrinare dentro se stesso.
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6. At 20,17-38 Addio agli anziani di Efeso: Testamento di Paolo

«Da Mileto mandò a chiamare a Èfeso gli anziani della Chiesa». Questo discorso di congedo lo possiamo leggere alla luce del Discorso di Gesù nell’Ultima cena riportata nel vangelo di Giovanni. Paolo riflette sul suo ministero e sulla sua testimonianza, esortando i presbiteri di Efeso a imitare il servizio da lui reso alla Parola. Egli lascia il suo testamento ai fratelli che ha generato nella fede come figli del Padre.
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Le prime parole che Paolo rivolge agli anziani sono: «Voi sapete…». Egli sottolinea che non ha niente da nascondere…, illustra lo stile di Dio, lo stile della semplicità, in cui quel che si dice corrisponde a quel che si fa. Proprio questo è ciò attribuisce autorità. È un invito alla trasparenza. 
L’esperienza di Paolo è un’esperienza comunitaria… Il suo ministero, il suo modo di comunicare il Vangelo, è stato quello di andare in mezzo alle persone, lì dove vivono, prima in sinagoga, poi, quando l’hanno cacciato, nella scuola di un filosofo, infine, nelle piazze, dove ha incontrato le donne che lavavano i panni. Egli ha sempre operato nella vita quotidiana. Il Vangelo non è qualcosa di astruso, di separato da quello che le persone vivono quotidianamente. È invece il principio dell’incarnazione: entra e si incontra dove le persone vivono. D’altra parte, Dio è proprio questo stare “con”, soprattutto con chi è solo, con i peccatori, con i pubblicani, con le prostitute, con i poveri.

«… per tutto il tempo…»: Paolo non ha cambiato il suo comportamento. Anche quando si sono riunite attorno a lui delle persone che ascoltavano, quando si è formato il primo nucleo della Chiesa. C’è quindi una comunanza di vita. È bello concepire l’apostolato come lo stare “con”, e non come lo stare immerso nei propri privilegi, nelle proprie ricchezze.

«… servendo il Signore…»: la caratteristica di Paolo non è quella del padrone. Ma quella di servire il Signore, nello stile di Gesù.

«Con tutta umiltà…»: Paolo invita all’umiltà anzitutto: «ho servito il Signore con tutta umiltà» (v. 19): non è solo virtù invocata o occasionale, ma esperienza costante del limite e convinzione della propria non indispensabilità.

«... e lacrime e prove…»: la vita di Paolo è associata al mistero di morte e resurrezione di Cristo. In Col 1,24, scrive: «Compio in me a vostro favore quel che ancora manca alle sofferenze di Cristo».

«non mi sono mai tirato indietro…»: Paolo si è rivolto a tutti, giudei e greci… Paolo mostra coraggio enorme nel mettere a confronto culture diverse, preoccupato solo di evidenziare che Dio è Padre di tutti e gli altri sono miei fratelli.

«Ed ecco, dunque, costretto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme»: qui Paolo accenna alla sua situazione presente e futura, dove viene messo in evidenza non ciò che Paolo fa ma quello che gli altri gli faranno. Egli “incatenato” (dedeménos) allo Spirito che è massima relazione d’amore tra Padre e Figlio, che coinvolge lui a saper donare la sua vita a tutti. Questa catena dello Spirito rappresenta un sigillo d’amore più forte della morte che Paolo sta per affrontare.

«Vado a Gerusalemme…»: ripeto, andare a Gerusalemme significa tornare alla casa del Padre, ripercorrendo, in modo sacramentale, l’itinerario di Gesù. Solo da lì si può ripartire per andare agli estremi confini del mondo, Roma.

Come Gesù, salendo a Gerusalemme, per tre volte ha annunziato ai suoi il mistero della sua passione, così Paolo dice che lo aspettano catene e tribolazioni. In questo senso è significativo ciò che Paolo scrive in Col 1,24: «Io compio in me, nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo in vostro favore». Questo è confermato da ciò che scrive in 2Cor 11,22-28, è un testo che ci fa capire che le catene di cui parla, sono catene che ha già sperimentato sulla sua pelle.

«… purché compia la mia corsa…»: Paolo è consapevole di ciò a cui va incontro, lo abbraccia con gioia nella consapevolezza dell’assimilazione al Signore: per me la vita è Cristo! È per lui che Paolo compie la corsa del servizio che ha ricevuto dal Signore: l’essere servo dei fratelli, questo è amare i fratelli. In tal modo Paolo è testimone del volto di Gesù e del Vangelo che racconta con la sua vita consegnata.

«E ora, ecco, io so che non vedrete più il mio volto»: in un certo senso Paolo ha consegnato il suo ritratto, adesso, nei versi 25-31, fa alcune raccomandazioni. Egli ricorda che ha annunciato tutta la volontà di Dio senza ambiguità e senza secondi fini, con coraggio e franchezza (parresia), per cui «io sono innocente del sangue di tutti», cioè io non sono responsabile se qualcuno si perde… Quindi ognuno deve assumersi le sue responsabilità. È quando uno se ne va che si vede se quel che ha fatto ha radici. Andando via Paolo mette gli altri in condizioni di camminare con le proprie gambe.

«State attenti a voi stessi e a tutto il gregge…»: questo è il centro del discorso. Paolo sta parlando ai presbiteri. Egli ricorda che lo Spirito santo li ha scelti dentro questo gregge come persone chiamate a guardare la situazione (episcopoi), dallo sguardo di Dio, ricordando sempre che si tratta di pascere la chiesa che è di Dio (e non dei presbiteri) che si è acquistata con il proprio sangue. La morte del Figlio, infatti, è la manifestazione totale del padre per il Figlio e del Figlio per il Padre e per tutti noi.

Occorre allora avere attenzione per ogni persona perché Cristo «è morto per tutti i peccatori dei quali io sono il primo», dice Paolo. Tutti sono miei fratelli, non escludo nessuno, perché ogni persona è figlio di Dio.

«Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci»: è l’Appello alla vigilanza contro i lupi e all’amore per poveri. Paolo ha educato gli Efesini alla libertà e alla responsabilità, e quindi invita gli anziani ad adoperarsi perché la gente sia libera e capace di vivere da figli e da fratelli. Adesso li mette in guardia contro lupi rapaci. All’epoca erano coloro che non avevano accettato il concilio di Gerusalemme.
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