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lunedì 24 aprile 2017

Papa Francesco alla Veglia per i nuovi martiri: La Chiesa ha bisogno dei santi di tutti i giorni, quelli della vita ordinaria, portata avanti con coerenza; ma anche di coloro che hanno il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni fino alla fine, fino alla morte. Tutti costoro sono il sangue vivo della Chiesa.

VEGLIA IN MEMORIA DEI “NUOVI MARTIRI” DEL XX E XXI SECOLO

Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina
Sabato, 22 aprile 2017



Prega in ricordo dei martiri cristiani degli ultimi due secoli, papa Francesco, nella veglia organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio nella Basilica romana di San Bartolomeo all’Isola Tiberina. Ma il suo pensiero correi ai migranti, ai rifugiati, «alla crudeltà», scandisce, «che oggi si accanisce sopra tanta gente». Ricorda, il Papa, che «i campi di rifugiati – tanti – sono di concentramento, per la folla di gente che è lasciata lì. E i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti anche questo peso, perché gli accordi internazionali sembra che siano più importanti dei diritti umani».

Poco prima aveva incontrato nei locali attigui alla Basilica un gruppo di rifugiati giunti in Italia grazie ai corridoi umanitari realizzati da Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese. Nel saluto finale davanti alla folla, fuori dalla Chiesa, il Papa invita a pregare sul dramma dei migranti esortando all’accoglienza: «La gente», dice, «che arriva in barconi e poi restano lì, nei Paesi generosi come l’Italia e la Grecia che li accolgono, ma poi i trattati internazionali non lasciano… Se in Italia si accogliessero due, due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti. E questa generosità del sud, di Lampedusa, della Sicilia, di Lesbo, possa contagiare un po’ il nord. È vero: noi siamo una civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio».



Siamo venuti pellegrini in questa Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, dove la storia antica del martirio si unisce alla memoria dei nuovi martiri, dei tanti cristiani uccisi dalle folli ideologie del secolo scorso – e anche oggi – e uccisi solo perché discepoli di Gesù.

Il ricordo di questi eroici testimoni antichi e recenti ci conferma nella consapevolezza che la Chiesa è Chiesa se è Chiesa di martiri. ... E ci sono anche tanti martiri nascosti, quegli uomini e quelle donne fedeli alla forza mite dell’amore, alla voce dello Spirito Santo, che nella vita di ogni giorno cercano di aiutare i fratelli e di amare Dio senza riserve.

Se guardiamo bene, la causa di ogni persecuzione è l’odio ...

Quante volte, in momenti difficili della storia, si è sentito dire: “Oggi la patria ha bisogno di eroi”. Il martire può essere pensato come un eroe, ma la cosa fondamentale del martire è che è stato un “graziato”: è la grazia di Dio, non il coraggio, quello che ci fa martiri. Oggi, allo stesso modo ci si può chiedere: “Di che cosa ha bisogno oggi la Chiesa?”. Di martiri, di testimoni, cioè dei santi di tutti i giorni. Perché la Chiesa la portano avanti i santi. I santi: senza di loro, la Chiesa non può andare avanti. La Chiesa ha bisogno dei santi di tutti i giorni, quelli della vita ordinaria, portata avanti con coerenza; ma anche di coloro che hanno il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni fino alla fine, fino alla morte. Tutti costoro sono il sangue vivo della Chiesa. Sono i testimoni che portano avanti la Chiesa; quelli che attestano che Gesù è risorto, che Gesù è vivo, e lo attestano con la coerenza di vita e con la forza dello Spirito Santo che hanno ricevuto in dono.

Io vorrei, oggi, aggiungere un’icona di più, in questa chiesa. Una donna. Non so il nome. Ma lei ci guarda dal cielo. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne, con tre bambini. Mi ha guardato e mi ha detto: “Padre, io sono musulmano. Mia moglie era cristiana. Nel nostro Paese sono venuti i terroristi, ci hanno guardato e ci hanno chiesto la religione e hanno visto lei con il crocifisso, e le hanno chiesto di buttarlo per terra. Lei non lo ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto!”. Questa è l’icona che porto oggi come regalo qui. Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o è riuscito ad andare altrove. Non so se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi di rifugiati – tanti – sono di concentramento, per la folla di gente che è lasciata lì. E i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti anche questo peso, perché gli accordi internazionali sembra che siano più importanti dei diritti umani. E quest’uomo non aveva rancore: lui, musulmano, aveva questa croce del dolore portata avanti senza rancore. Si rifugiava nell’amore della moglie, graziata dal martirio.

... L’eredità viva dei martiri dona oggi a noi pace e unità. Essi ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace. E allora possiamo così pregare: O Signore, rendici degni testimoni del Vangelo e del tuo amore; effondi la tua misericordia sull’umanità; rinnova la tua Chiesa, proteggi i cristiani perseguitati, concedi presto la pace al mondo intero. A te, Signore, la gloria e a noi, Signore, la vergogna (cfr Dn 9,7).


Guarda il video del discorso del Papa


I campi profughi come campi di concentramento? 
Ecco perché le parole di Papa Francesco non possono che risvegliare la nostra coscienza
di Damiano Serpi

Papa Francesco, durante la veglia di preghiera per i nuovi martiri tenuta con la Comunità di Sant’Egidio nella Chiesa di San Bartolomeo sull’isola Tiberina, ha ricordato un episodio capitatogli sull’isola di Lesbo esattamente un anno fa durante la sua visita al campo profughi. Mentre era intento a salutare uno a uno gli ospiti del campo un uomo mussulmano ha voluto raccontargli la sua personale storia di dolore e sofferenza.Fuggiva dalla sua terra con i suoi tre figli per cercare quella pace e quella sicurezza che altri uomini senza pietà e misericordia gli avevano portato via nel modo più atroce sgozzando, davanti ai suoi occhi pieni di terrore, la propria moglie solo perché non aveva voluto abiurare la sua fede cristiana buttando per terra e calpestando il piccolo crocefisso che portava al collo. 
Non è un episodio inedito, già in precedenza il Papa aveva raccontato di questo incontro così emozionante e commovente. Lo fece da Piazza San Pietro durante l’Angelus immediatamente successivo al rientro dal viaggio appena compiuto all’isola greca assieme al patriarca ecumenico Bartolomeo I e all’arcivescovo greco ortodosso di Atene Ieronymos. Tuttavia ieri il Santo Padre ha pronunciato due parole in più che, in breve tempo, hanno fatto il giro del mondo in modo più rapido della stessa storia che era alla base del suo ragionamento. Nel chiedersi quale fine avesse fatto quell’uomo così tanto provato dal dolore, Papa Francesco ha definito quel reticolato di filo spinato di Lesbo un “campo di concentramento” moderno, dove gli uomini vengono rinchiusi per diventare una folla di gente piena di disperazione. 
Due parole che hanno destato la coscienza di molti e suscitato tanti sentimenti contrapposti. Da un lato sentire le parole “campo di concentramento” ha risvegliato in tanti di noi l’idea, il ricordo, le immagini di ciò che successe in Europa durante la seconda guerra mondiale con la miriade di campi di concentramento sparsi in ogni angolo del vecchio continente. Aree di raccolta ideate per portare avanti la folle idea di quella supremazia della razza che causò la morte di milioni di persone inermi. Dall’altro molti hanno subito avvertito la pesantezza di quelle parole del Papa pronunciate con la tristezza nel cuore e con la voce provata dall’emozione. Non si può negare che l’uso di quel termine ha sortito l’effetto di scuoterci tutti in modo forte e deciso.
Alcune organizzazioni, tra cui spicca anche un’importante associazione di ebrei americani, hanno subito chiesto al Santo Padre di voler ritornare indietro su quanto affermato perché si precisasse che non era stato opportuno paragonare i campi profughi della Grecia o della Turchia a ciò che, nell’immaginario collettivo, sono stati i campi di concentramento nazionalsocialisti. Secondo queste organizzazioni, e per dirla tutta anche ascoltando alcuni illustri storici, non può essere usato lo stesso termine per definire luoghi dove veniva sistematicamente procurata le morte e dove, invece, vengono accolti i profughi o i migranti che scappano dalle loro terre per via della guerra, delle persecuzioni o della fame. Tutto vero, soltanto che il Santo Padre non ha fatto alcun paragone con ciò che è successo durante la storia, né ha voluto riferirsi a ciò che successe ormai oltre 75 anni fa in un’Europa dilaniata dall’anti semitismo e dall’odio. 
Il Santo Padre ha voluto soltanto svegliare tutte le nostre coscienze di fronte ad un dramma epocale che sembra scivolarci addosso senza farci riflettere abbastanza sulla situazione di grande sofferenza, e di privazione quasi totale della libertà, che altri nostri fratelli sono obbligati a subire. L’uso del termine “campo di concentramento” non era assolutamente da intendersi come termine di paragone, ma semplicemente come definizione concreta di ciò che quei campi sono oggi nella realtà dei fatti. Gli storici o le varie associazioni che, appellandosi a ciò che è stata la realtà storica, si sentono in dovere di avvisarci che certe comparazioni non hanno ragion d’essere possono stare tranquilli per il semplice fatto che bastava ascoltare oltre quell’inciso per capire che non si intendeva alludere a paragoni storici specifici. Si voleva esclusivamente descrivere con compiutezza ciò che la verità deve condurci a pensare di quei campi che oggi, nello scorrere del nostro tempo presente, ospitano tante persone in cerca di risposte. 
Già, la storia. Ma quale storia dei campi di concentramento vogliamo rievocare ? Quella che riguarda un solo popolo, una sola nazione, un continente, un’epoca più che un’altra, un regime totalitario piuttosto che un’altro o una guerra ? Oppure quella dell’uomo, inteso come semplice essere umano dotato del dono della vita, senza badare alla sua appartenenza religiosa, al suo credo, alla sua origine genealogica, alla sua razza, al suo reddito, alla sua cultura, alla sua esigenza di protezione ? Insomma, vogliamo parlare di campi di concentramento come modelli oppure di campi di concentramento come luoghi di sofferenza per l’uomo ? 
Si, è vero i campi di concentramento nazisti sono stati senza ombra di dubbio uno dei momenti più bui e mostruosi dell’esistenza dell’uomo. Tuttavia la storia stessa ci dice che dobbiamo essere precisi e quindi dobbiamo ricorrere all’uso dei giusti termini se vogliamo essere poi autorizzati a richiamare gli altri al rispetto della verità storica. I campi di concentramento non sono stati inventati dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, esistevano, purtroppo, già da millenni nell’armamentario dell’uomo che vuole imprigionare altri uomini. Andando a ritroso nel tempo troviamo campi di concentramento nella storia degli Armeni, in quella degli schiavi africani, durante le crociate, nel Medioevo e addirittura ai tempi dei Romani e degli Egizi. Li si poteva chiamare in vario modo, tuttavia erano tutti luoghi dove determinate categorie di persone venivano condotte a forza e, in un modo o nell’altro, spogliate della loro libertà. Una cosa sono i campi di concentramento e un’altra sono i campi di sterminio e di lavoro scientemente inventati dai nazisti per dare loro modo di portare a termine la terrificante “soluzione finale” pensata per eliminare dal mondo la stirpe ebraica. Auschwitz, Birkenau, Treblinka, Dachau erano tutti campi di lavoro e di sterminio dove l’obiettivo non era solo quello di limitare la libertà dell’uomo ma di ucciderlo nel peggiore dei modi possibili, ossia annientando totalmente la sua umanità prima di togliergli l’ultimo respiro nelle camere a gas. 
Il Papa ieri non ha parlato di campi di lavoro o di sterminio, ma ha solamente detto che i campi profughi, per come si stanno configurando nella realtà dei fatti, sono dei veri e propri campi di concentramento di uomini, donne, vecchi e bambini. Cos’altro sono oggi i campi profughi come Lesbo ? Sono forse campeggi dove uno va per passare qualche settimana di ferie spensierate ? Sono forse luoghi ameni dove tenere meeting oppure dove approfondire le conoscenze personali ? Sono forse luoghi dove gli ospiti aspirano ad andare per starci a lungo ? Sono luogo di soggiorno dove chi è ospite può domani decidere di fare le valigie e andar via liberamente e senza limitazioni ? No, i campi profughi sono oggi dei luoghi dove le autorità degli stati, per rispettare norme e accordi internazionali stipulati, peraltro, quando non si aveva sentore di questa tipologia di emergenza, conducono con la forza chi fugge dai loro paesi per cercare pace, tranquillità e un futuro migliore. Questa è la realtà che non possiamo nascondere né manipolare. Nei campi profughi come Lesbo vivono persone che, fuggite dalla loro terra natia, non possono raggiungere le mete che si erano prefissate perché la legge positiva dell’uomo non lo permette. Non lo possono fare perché le barriere fisiche delle frontiere non lo consentono. Nei campi per profughi e migranti non si va liberamente, ma si è in qualche modo “rinchiusi” per volere delle autorità. 
Chi viene condotto in un campo profughi non conosce nulla del suo destino e del suo futuro più prossimo. Da un lato sa che non potrà tornare a casa perché le condizioni che hanno imposto la fuga permangono tutte, dall’altro non possono decidere liberamente dove andare perché non è accordato loro il potere farlo. Devono attendere dentro quei recinti per mesi e forse anni prima di sapere se verrà concesso loro il diritto di risiedere in uno dei paesi di quell’occidente che vogliono raggiungere o se verranno rimpatriati con la forza. Non si tratta qua di discutere sul fatto che ci sono leggi e regolamenti che vanno rispettati perché non si può accogliere tutti, bensì sulla reale condizione di chi, fuggendo per giusta causa, si ritrova poi a dover vivere obbligatoriamente in enormi campi recintati senza avere la possibilità di uscirne e come se fosse un delinquente da punire con la reprimenda classica di chi è sicuramente colpevole di un reato. 
Questi sono i campi di concentramento. Campi dove si raccolgono e, appunto, si concentrano determinate persone e famiglie in base ad un criterio comune. L’unico criterio che unisce chi vive oggi nei campi profughi e di migranti come quello di Lesbo è quello di essere fuggiti dalla loro terra per poter sperare in un futuro migliore. C’è chi fugge dalle guerre in corso, chi dalla persecuzione religiosa o politica, chi dalla fame e dalla carestia di un’Africa sempre più povera o chi da un futuro senza speranza. Il Papa e la Chiesa non chiedono di eludere la legge, soltanto di iniziare a pensare e trattare queste persone come uomini che soffrono e a cui bisogna dare una speranza perché fuggono per avere una speranza di vita. 
Ciò che molti non riescono ancora a capire, in Italia e nel resto d’Europa fino a toccare le sponde oltre l’Atlantico, è il bisogno del Santo Padre di essere prossimo all’uomo che soffre e non al rispetto di un diritto positivo che compete a chi ha la responsabilità del potere politico. La Chiesa non può non parlare della sofferenza della carne viva degli uomini che fuggono dalle proprie case perché hanno bisogno della speranza per poter pensare alla propria vita. La Chiesa non può tacere su questo solo perché la politica non riesce a trovare mediazioni oppure perché si impantana sulle quote numeriche da assegnare in base a criteri che diventano sempre più egoistici. La Chiesa non può tacere perché l’argomento non è popolare in questa particolare congiuntura economica e sociale del mondo globalizzato. La Chiesa deve seguire il Vangelo e l’insegnamento di Gesù. Il Papa non può essere “politically correct” solo perché oggi non bisogna gettare discredito sui potenti del mondo che non hanno saputo trovare soluzioni plausibili che invece, associazioni volenterose come Sant’Egidio, hanno dimostrato al mondo di poter conseguire attraverso il progetto dei “Corridoi Umanitari”. Il Vangelo non può essere piegato alle esigenze occasionali di chi ha il potere sulle società solo perché è meglio sempre essere populisti che popolani. 
Affermare oggi che esistono in Europa dei campi di concentramento, dove nostri fratelli sono costretti a stare solo perché fuggono via disperati dalle loro case e dalla loro terra, può certamente e comprensibilmente spaventare, ciò nonostante è la semplice verità delle cose che non può o deve essere nascosta. Non illudiamoci che quei campi siano come delle momentanee aree di accoglienza per terremotati o alluvionati. Non è così. Non lo è per il semplice fatto che chi trova ospitalità in un campo di accoglienza per terremotati o per alluvionati ha dentro di se la viva speranza di potersi ricostruire un futuro con l’aiuto degli altri. Potrà essere dura, lunga e non scevra di privazioni dolorose, tuttavia chi è dovuto scappare di casa per un terremoto o un’alluvione sa in cosa credere e sperare. Chi invece fugge via per altri motivi, trova le frontiere chiuse e viene obbligata a stare in campi sigillati, dove non si può neanche metter naso fuori dalla recinzione, ciò che manca è soprattutto la speranza e la fiducia nel domani. 
Proprio per tutto questo non sono scandalose le parole usate ieri dal Papa, ma lo è il silenzio connivente di chi non capisce, o fa finta di non voler capire, che il rischio concreto è ormai quello di dare per normale l’esistenza di questa nuova tipologia di “campi di concentramento” di uomini nati “sfortunati” dentro la nostra società. Ciò che ci deve preoccupare sempre più è l’accettazione, o forse è meglio dire la rassegnazione, all’idea che ci possano essere uomini e donne destinate a restare chiusi senza speranza dentro recinti costruiti dall’uomo stesso per rispetto di norme e vincoli più importanti dei sentimenti e delle stesse sofferenze umane. D'altronde per convincercene davvero basta chiudere un attimo gli occhi e chiederci : se fossimo noi rinchiusi senza speranza dentro uno di quei recinti per aver avuto solo l’ardire di fuggire dalla guerra o dalla morte certa cosa sarebbe per noi quel recinto se non un “campo di concentramento”?
(fonte: Il Sismografo)


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