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martedì 6 giugno 2017

ARCHITETTURE E LUOGHI DI MISERICORDIA di Bruno Forte

ARCHITETTURE E LUOGHI DI MISERICORDIA
di Bruno Forte,
Arcivescovo di Chieti - Vasto

Facoltà di Architettura, 
Pescara, 
28 Ottobre 2016




1. L’architettura come scrittura della luce In un testo, le cui conseguenze per la storia dell’arte difficilmente saranno esagerate, il Concilio Costantinopolitano IV nell’870 conferma la condanna dell’iconoclastia pronunciata dal Niceno II (787), affermando che “quanto il discorso (lógos) dice in sillabe (en syllabé) la scrittura in colori (è en krómasi grafé) lo annuncia e lo rende presente” (DS 654). Il collegamento fra il “sillabare del lógos” e la “grafia dei colori” non sorprende chi consideri come nella tradizione orientale l’iconografo non sia colui che dipinge, ma colui che “scrive” l’icona: la “scrive”, precisamente perché si serve di linee e di colori. Come la linea delimita lo spazio e circoscrive una forma, così fa la lettera dell’alfabeto o il disegno dell’ideogramma: la linea dà forma allo spazio, lo in-scrive. L’icona in quanto spazio “in-formato” è “scritta”. Il colore dà luminosità alla forma così definita, facendo emergere in essa dalla tenebra indefinita lo splendore della luce originaria. La linea - in quanto limita e circoscrive - è “kènosi”, il colore - in quanto illumina e irradia - è “splendore”. Mentre la linea definisce la separazione, il colore manifesta l’unità fra il Tutto ed il frammento: grazie alla loro combinazione, il Tutto può offrirsi nel frammento e il frammento ospitare la totalità evocandola. È così che la luce in-scritta assume forma e può offrirsi come evento di bellezza. In un simile evento il Tutto si fa presente nel frammento in un modo che non confonda i due termini, ma faccia dell’uno la cifra e dell’altro: in tal senso, la bellezza della forma è insieme “kenosi dello splendore” e “splendore della kenosi”, e l’architettura altro non è che scrittura della luce attraverso il gioco delle masse e dei vuoti.
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7. Architettura e misericordia: nel segno della custodia e della tensione verso la luce. In base alle riflessioni fin qui sviluppate, è possibile chiedersi quale rapporto possa esistere fra architetture e misericordia. In altri termini, ci chiediamo se uno spazio architettonico può essere più o meno adeguato di un altro ad evocare l’amore misericordioso del Dio cristiano. Un richiamo filologico può aiutarci a individuare una risposta. Nell’ebraico biblico il termine più frequente per indicare la misericordia è “rachamim”, espressione che designa propriamente le “viscere” materne, il grembo in cui ha inizio ogni vita. Sul piano delle relazioni che ci fanno umani l’immagine richiama il sentimento intimo di coappartenenza che lega il concepito alla madre, il legame originario dell’amore che fa vivere fra chi dà vita e chi la riceve: sentimento di tenerezza e perfino di commozione profonda (“Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono”: Sal 103,13; cf. Ger 31,20 e Gen 43,30). La misericordia evoca l’amore viscerale, non condizionato dalla reciprocità e dall’altrui corrispondenza, ma mosso unicamente dalla volontà di bene per l’altro: in questo senso San Bernardo può dire che “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama”, mostrando così qual è il volto del Dio della misericordia. L’idea evocata è dunque quella di una custodia primordiale che accoglie, nutre e protegge, e di un’oscurità ospitale in cui la creatura concepita vive in simbiosi con la madre e ne riceve alimento, impulso e custodia. Nell’architettura sacra questa duplice indicazione può essere fortemente evocata dalla forma sia esterna, che interna dello spazio, e dalla maniera in cui in esso le masse tagliano la luce. Ad esempio, le forme del romanico con l’arco a tutto sesto e la struttura basilicale delle chiese evocano un’armonia e una compiutezza ospitali, in cui la luce si diffonde come abbraccio materno che avvolge ogni cosa, mentre nel gotico è lo slancio dell’arco a sesto acuto e il gioco della penombra che tende verso la luce dal basso all’alto a scrivere una forma di custodia dinamica, che stimola lo slancio del cuore verso Dio e la ricerca dello splendore divino a partire dalle tenebre del tempo che passa.
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