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giovedì 31 agosto 2017

Il perdono nella Bibbia come nella vita è una cosa seria... non è un sentimento, è una decisione. - Le prediche di Spoleto 2017 LA PREGHIERA DI GESÚ: IL PADRE NOSTRO - "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori" P. Ermes Ronchi

LA PREGHIERA DI GESÚ:
IL PADRE NOSTRO
a cura dell’Archidiocesi Spoleto-Norcia in collaborazione con Festival di Spoleto 60

È ormai tradizione che il Festival di Spoleto proponga nel suo programma un ciclo di "Prediche" che, grazie ad interventi qualificati, offra a quanti le vogliano ascoltare qualche spunto di riflessione e approfondimento.
Dopo le felici esperienze degli anni passati, il 2017 affronta il tema della preghiera partendo dal testo che Gesù di Nazareth ha consegnato ai suoi discepoli: il Padre nostro. Con Tertulliano, scrittore del secondo secolo d.C., la tradizione delle Chiese cristiane vede in quelle parole un compendio di tutto il Vangelo. In esse sono contenute le dimensioni essenziali della predicazione di Gesù e si ritrova come l’introduzione al suo insegnamento e al mistero stesso della sua esistenza.
Anche oggi, ripercorrere questo testo e addentrarsi nelle domande che formula - dal pane quotidiano al perdono reciproco - conduce a scoprire che cosa significhi pregare, se sia possibile parlare a Dio, se non si tratti di una illusione, se possiamo domandargli effettivamente qualcosa. Perché per pregare è indispensabile trovare il cammino del cuore; il cuore inteso non come luogo della vita affettiva e delle emozioni, ma come il centro della persona, punto preciso in cui l’uomo si conosce in verità. È per questa ragione che la preghiera non si può definire come un discorso rivolto a Dio o una riflessione intellettuale sull’essere di Dio. La preghiera cristiana si colloca su un altro piano. È un dialogo tra due esseri.
+ Renato Boccardo


Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

P. Ermes Maria Ronchi *
Docente alla Pontificia Facoltà Teologica "Marianum" - Roma
venerdì 14 luglio


Siamo alla quinta domanda del Padre Nostro. Che è la preghiera dove mai si dice io, mai mio. Ma sempre tuo e nostro. Preghiera espropriata. Dove ci scopriamo creature di legami, dove esistere è coesistere. In principio a tutto, il legame. Quello che ci lega a Dio: orizzonte ultimo; e quello che ci stringe all’orizzonte penultimo, i compagni di cordata. Pregare è aprirsi ai legami, aprire la nostra casa, come si apre una finestra al sole, una porta sul vento della strada; aprirsi in due direzioni: quotidiano ed eterno; l’eterno che si insinua nell’istante, l’istante che si apre sull’eterno. Rimetti a noi come noi rimettiamo agli altri. Ci mettiamo davanti a Dio e ci impegniamo ad essere per gli altri quello che vogliamo che Dio sia per noi. Vogliamo il suo perdono ma ci impegniamo davanti a Dio ad essere generosi di perdono. La premura per gli altri è dentro la preghiera, è testo di preghiera.

Nella quinta domanda del Padre Nostro accogliamo una definizione dell’essere umano: ci definiamo tutti come debitori. È un modo nuovo e leggero di abitare la terra: passare nel mondo come debitori grati a infiniti fratelli, e alla madre terra, riconoscenti e lieti per la vita, la salute, la cultura, il benessere, la scienza, le scoperte, i servizi, i miei maestri, il pilota dell’aereo che mi ha portato qui, la medicina, l’elettricista che ha fatto funzionare il microfono, il raccoglitore di cotone da cui viene la mia camicia. Noi viviamo di una ospitalità cosmica. Verso cui siamo debitori non creditori che esigono spietatamente ciò che pensano che spetti loro come diritto o dovere. Debitori non pretendenti. Il debito di esistere si paga solo con la gratitudine e con l’amore: non abbiate con nessuno altro debito che quello di un amore reciproco. Il collante del mondo, il tessuto connettivo della società, che ha il ruolo della particella Xi appena scoperta al Cern di Ginevra, definita la colla della materia, ebbene la colla degli spiriti è un debito, una gratitudine reciproca.

Ciò che tiene unito il mondo e connessa la storia non è la riscossione dei miei diritti, non è la meritocrazia, non è neppure la verità (la mia verità contro la tua verità e nascono tutte le guerre). È una strada che Nelson Mandela descrive così: «Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che è un’arma potente». «Il perdono strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri ciò che hai subito, la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio» (Hanna Arendt). Alle offese si può reagire in modo antitetico con la vendetta o con il perdono. Chi imbocca la prima strada crede che al male subito si possa “riparare” mediante un altro male. Usa il male come cicatrizzante. Ma allora saranno non più una ma due ferite a sanguinare: «occhio per occhio. Se fosse applicata questa legge il mondo sarebbe cieco» (Kalil Gibran). Con il perdono invece si innesca un meccanismo che può portare a quel miracolo della storia che è stato il Sudafrica di Mandela alla fine dell’Apartheid, con la commissione per la giustizia e la riconciliazione.

Ricerca e riconoscimento della giustizia, innanzitutto: perché il perdono non va confuso con il subire in silenzio angherie, con l’accettazione dell’ingiustizia, come purtroppo per molto tempo è stato predicato soprattutto ai soggetti deboli, fossero le donne o i bambini violati, o i contadini e operai sfruttati dai padroni... Giustizia prima e poi riconciliazione. Noi siamo più della storia che ci ha partorito, possiamo andare oltre la vicenda che ci ha ferito. È chiaro che siamo anche quella storia e con quella dobbiamo fare i conti, non metterci semplicemente una pietra sopra, dimenticare: questo è rimozione, non perdono. Non fare i conti con il proprio passato ci rende pericolosi: le ferite rimangono aperte e siamo ostaggio di quel male che continua ad agire, anche se inconsapevolmente.

La cura non necessariamente sanerà la ferita, ma può farci capire che non tutto il mondo impugna un coltello pronto a colpirci. Ci sono anche mani che accarezzano accanto a quelle che ci hanno schiaffeggiato. Se non perdoni, vivi alimentando il tuo rancore e la vita si fa rancida, senti che la vita ti ha derubato di qualcosa e non sei capace di gratitudine né di stupore. Il perdono nella Bibbia come nella vita è una cosa seria. Non è fare come il cagnolino che lecca la mano che prima lo ha colpito. Non sempre è possibile ristabilire la relazione con chi ci ha ferito, non sempre è opportuno farlo. Non si può chiedere alla vittima di uno stupro di perdonare il suo stupratore fino a riconciliarsi con lui. Sarebbe inopportuno. Si può arrivare al perdono, a concedere e ricevere il perdono, senza che questo comporti il ristabilire un rapporto, un contatto. Anche la Bibbia ci racconta storie dove le ferite sono così gravi che non è più possibile riallacciare una relazione, come quando subentra un lutto. Se uccidi qualcuno non potrai più ristabilire la relazione. Puoi però fare un cammino perché le nuove relazioni siano differenti.

Il perdono nella Bibbia come nella vita è una cosa seria. Siamo abituati a una immagine banale del perdono, secondo una spettacolarizzazione del dolore. Chi non assistito alla classica scena televisiva del giornalista che piazza il microfono davanti a un volto distrutto e pone quella domanda oscena, indecente: perdona l’assassino di suo figlio? Questo riduce il perdono ad un semplice fatto emotivo, da consegnare allo spettacolo dell’audience, senza rispetto per il serio, lungo, complesso processo di perdono, che non si risolve magicamente, non va da sé come un fenomeno naturale, ma necessita di maturazione, implica rischio, impone scelte. Il perdono non è un sentimento, è una decisione. Non fa la sua comparsa come un moto spontaneo del cuore, domanda decisione perseveranza cambiamento. Perdonare non è una presa di posizione ideologica – se sei credente devi saper perdonare –. È piuttosto una sapienza sorta dalla vita, un discorso fatto a partire dalla grammatica della condizione umana. Perdonare il male ricevuto è come il tentativo di ristabilire relazioni che permettano di andare avanti, in modo positivo, nella vita, di essere se non proprio felici almeno in grado di pensare che la vita sia un dono e non un pacco, una fregatura... Perdonare non è dimenticare. È aprire futuro. Il bisogno di perdono è il bisogno di non trascinarci dietro per sempre il peso dei nostri sbagli, delle ferite, dei fallimenti, di non rinchiudere nessuno, né noi né gli altri, dentro ergastoli interiori, ma di liberare il futuro.

* P. ERMES MARIA RONCHI | È nato a Racchiuso di Attimis nel 1947. Ordinato sacerdote nel 1973, per l’Ordine dei Servi di Maria, consegue il dottorato in Storia delle religioni con specializzazione in Antropologia culturale alla Sorbona e in Scienze Religiose all´Institut catholique de Paris. È docente di Estetica Teologica ed Iconografia alla Pontificia facoltà teologica "Marianum" di Roma. Nel 2016, su incarico di papa Francesco, tiene le meditazioni degli esercizi spirituali alla Curia romana. È autore di numerosi libri su temi biblici e spirituali; collabora inoltre con diverse testate giornalistiche, tra cui Avvenire.

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