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martedì 17 ottobre 2017

"Accogliere significa ridimensionare il proprio io" Papa Francesco per i quattrocento anni del carisma della Famiglia Vincenziana

Accogliere significa ridimensionare il proprio io
Il cristiano accogliente è un vero uomo e donna di Chiesa,
perché la Chiesa è Madre e 
una madre accoglie la vita e la accompagna
Papa Francesco



Udienza alla Famiglia Vincenziana 

per i 400 anni dalla fondazione del Carisma

14.10.2017



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

grazie per la vostra calorosa accoglienza, e grazie al Superiore Generale per aver introdotto questo nostro incontro.

Vi saluto e insieme con voi ringrazio il Signore per i quattrocento anni del vostro carisma. San Vincenzo ha generato uno slancio di carità che dura nei secoli: uno slancio che è uscito dal suo cuore. Per questo oggi abbiamo qui la reliquia: il cuore di San Vincenzo. Oggi vorrei incoraggiarvi a proseguire questo cammino, proponendovi tre semplici verbi che credo molto importanti per lo spirito vincenziano, ma anche per la vita cristiana in generale: adorare, accogliere, andare.

Adorare. Sono innumerevoli gli inviti di San Vincenzo a coltivare la vita interiore e a dedicarsi alla preghiera che purifica e apre il cuore. Per lui la preghiera è essenziale. È la bussola di ogni giorno, è come un manuale di vita, è – scriveva – il «grande libro del predicatore»: solo pregando si attinge da Dio l’amore da riversare sul mondo; solo pregando si toccano i cuori della gente quando si annuncia il Vangelo (cfr Lettera ad A. Durand, 1658). Ma per San Vincenzo la preghiera non è soltanto un dovere e tanto meno un insieme di formule. La preghiera è fermarsi davanti a Dio per stare con Lui, dedicarsi semplicemente a Lui. È questa la preghiera più pura, quella che fa spazio al Signore e alla sua lode, e a nient’altro: l’adorazione.

Una volta scoperta, l’adorazione diventa irrinunciabile, perché è pura intimità col Signore, che dà pace e gioia, e scioglie gli affanni della vita. Perciò, a qualcuno che era sotto particolare pressione, San Vincenzo consigliava anche di stare in preghiera «senza tensione, gettandosi in Dio con semplici sguardi, senza cercare di avere la sua presenza con sforzi sensibili, ma abbandonandosi a Lui» (Lettera a G. Pesnelle, 1659).

Ecco l’adorazione: mettersi davanti al Signore, con rispetto, con calma e nel silenzio, dando a Lui il primo posto, abbandonandosi fiduciosi. Per poi chiedergli che il suo Spirito venga a noi e lasciare che le nostre cose vadano a Lui. Così anche le persone bisognose, i problemi urgenti, le situazioni pesanti e difficili rientrano nell’adorazione, tanto che San Vincenzo chiedeva di «adorare in Dio» persino le ragioni che si faticano a comprendere e accettare (cfr Lettera a F. Get, 1659). Chi adora, chi frequenta la sorgente viva dell’amore non può che rimanerne, per così dire, “contaminato”. E comincia a comportarsi con gli altri come il Signore fa con Lui: diventa più misericordioso, più comprensivo, più disponibile, supera le proprie rigidità e si apre agli altri.

E giungiamo così al secondo verbo: accogliere. Quando sentiamo questa parola, viene subito da pensare a qualcosa da fare. Ma in realtà accogliere è una disposizione più profonda: non richiede solo di far posto a qualcuno, ma di essere persone accoglienti, disponibili, abituate a darsi agli altri. Come Dio per noi, così noi per gli altri. Accogliere significa ridimensionare il proprio io, raddrizzare il modo di pensare, comprendere che la vita non è la mia proprietà privata e che il tempo non mi appartiene. È un lento distacco da tutto ciò che è mio: il mio tempo, il mio riposo, i miei diritti, i miei programmi, la mia agenda. Chi accoglie rinuncia all’io e fa entrare nella vita il tu e il noi.

Il cristiano accogliente è un vero uomo e donna di Chiesa, perché la Chiesa è Madre e una madre accoglie la vita e la accompagna. E come un figlio assomiglia alla madre, portandone i tratti, così il cristiano porta questi tratti della Chiesa. Allora è un figlio veramente fedele della Chiesa chi è accogliente, chi senza lamentarsi crea concordia e comunione e con generosità semina pace, anche se non viene ricambiato. San Vincenzo ci aiuti a valorizzare questo “DNA” ecclesiale dell’accoglienza, della disponibilità, della comunione, perché nella nostra vita «scompaiano ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef4,31).

L’ultimo verbo è andare. L’amore è dinamico, esce da sé. Chi ama non sta in poltrona a guardare, aspettando l’avvento di un mondo migliore, ma con entusiasmo e semplicità si alza e va. San Vincenzo lo ha detto bene: «La nostra vocazione è dunque di andare, non in una parrocchia e neppure soltanto in una diocesi, ma per tutta la terra. E a far che? Ad infiammare il cuore degli uomini, facendo quello che fece il Figlio di Dio, Lui che è venuto a portare il fuoco nel mondo per infiammarlo del suo amore» (Conferenza del 30 maggio 1659). Questa vocazione è sempre valida per tutti. Pone a ciascuno delle domande: “io vado incontro agli altri, come vuole il Signore? Porto dove vado questo fuoco della carità o resto chiuso a scaldarmi davanti al mio caminetto?”.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio perché siete in movimento per le strade del mondo, come San Vincenzo vi chiederebbe anche oggi. Vi auguro di non fermarvi, ma di continuare ad attingere ogni giorno dall’adorazione l’amore di Dio e di diffonderlo nel mondo attraverso il buon contagio della carità, della disponibilità, della concordia. Benedico tutti voi e i poveri che incontrate. E vi chiedo, per favore, la carità di non dimenticarvi di pregare per me.

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Servizio CTV


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