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venerdì 9 febbraio 2018

«La scuola dell'inclusione non può passare di moda: è una necessità e un dovere. La scuola su questo non può fallire»

Avere alunni rom e minori non accompagnati? 
Per noi è un punto di forza

L'esperienza sul campo di Rosamaria Lauricella, dirigente scolastico dell'IC Valente di Roma. «La scuola dell'inclusione non può passare di moda: è una necessità e un dovere. La scuola su questo non può fallire»

«Se un dirigente afferma che per una scuola è un punto di forza non avere stranieri o alunni con disabilità, io mi scuso per chi lo ha scritto. Non posso che scusarmi, da donna di scuola. Per l’Istituto Comprensivo Valente l’inclusione è un punto di forza. Con grande difficoltà e anche pagando un prezzo»: Rosamaria Lauricella, dirigente dell’Istituto Comprensivo Valente di Roma, commenta così la vicenda delle scuole che nel proprio RAV hanno messo in bella evidenza, fra le opportunità offerte dalla scuola, il poter contare su gruppi classe omogenei, tutti appartenenti alla borghesia medio-alta, senza stranieri né alunni con disabilità. L’IC Valente nel RAV descrive al contrario una realtà diversa: che la scuola «accoglie un’utenza eterogenea e complessa», che l’istituto «è investito da un forte processo di flussi migratori; sono sempre più presenti alunni stranieri di culture diverse che impegnano la scuola nella strutturazione di attività di integrazione, anche attraverso la realizzazione percorsi didattici personalizzati necessari per facilitare le relazioni e trasformare i vincoli e i limiti iniziali in opportunità», che c’è «una presenza numerosa di alunni nomadi e stranieri, provenienti da zone particolarmente svantaggiate» a cui negli ultimissimi anni si sono aggiunti i ragazzini dei centri d’accoglienza, fra cui i minori non accompagnati. La scuola che fa? «Cura l'inclusione degli studenti con bisogni educativi speciali, valorizza le differenze culturali, adegua l'insegnamento ai bisogni formativi di ciascuno studente attraverso percorsi di recupero e potenziamento», ha mediatori culturali, fa formazione specifica per gli insegnanti, è una scuola che resta aperta anche durante le vacanze («da Scuola al Centro non abbiamo più smesso, dice la dirigente) e che nella valutazione «tiene conto delle esigenze e delle possibilità di ogni alunno e confronta le diverse situazioni di partenza e i risultati di ognuno conseguiti nel corso degli studi. Ciò ha permesso di valorizzare le individualità»: gli interventi personalizzati attraverso il lavoro d’aula «sono efficaci per un buon numero di alunni. Tale dato è evidenziato dai risultati rilevati alla fine dei percorsi di recupero/alfabetizzazione». È questo che si legge nel RAV e nel PTOF.

Rosamaria Lauricella dirige questa scuola da 11 anni. Quando le chiedo che ne pensa della frase che oggi qualcuno ha detto, che la scuola inclusiva non è più di moda, lei si agita. «La scuola è inclusiva è sempre di moda. Che poi non è una moda, è una necessità e un dovere, un’esigenza didattica, culturale, formativa, la scuola è ormai la seconda famiglia per moltissimi alunni». Nella sua scuola, dall’infanzia alla secondaria di primo grado, ci sono almeno 5/6 etnie diverse per ogni classe, compresi i rom dei campi nomadi («un tempo ero costretta a convocare in continuazione le mamme perché i bambini non frequentavano, adesso abbiamo i rom anche alla scuola infanzia, perfettamente inseriti, cosa che nella loro cultura non è prevista, il primo successo è stato con le famiglie», racconta la preside) e i minori non accompagnati dei centri di accoglienza che non conoscono una parola di italiano, 14/20 almeno all’anno… La scuola ha un mediatore culturale per il cinese e uno per l’arabo, docenti che parlano inglese. «Noi crediamo nella scuola inclusiva, ci abbiamo puntato, lavorando per modificare le mentalità innanzitutto di noi operatori e poi delle famiglie», racconta la preside. «È stato un cammino lento e lungo, ma adesso le cose sono cambiate, anche le famiglie ora credono in questi percorsi e iscrivano qui i loro figli perché trovano in classe il compagno straniero o in difficoltà, che diventa risorsa: mio figlio a contatto con la difficoltà riesce a comprenderla, esercita la resilienza. Si parla tanto di apprendimenti, è giusto che ci siano, ma la scuola è la scuola delle abilità e delle competenze, se gli apprendimenti non li trasformiamo in capacità e competenze, io sarò un bravissimo nozionista ma non sarò in grado di vivere insieme al vicino di casa straniero o semplicemente fastidioso, perché non dobbiamo pensare che l’inclusione riguardi solo gli stranieri. Posso essere molto erudita ma se mi chiudo alle relazioni e alla vita ho fallito. La scuola oggi ha il grosso compito di non fallire su questo».

Come sono cambiate le famiglie? «Il genitore esordiva sempre dicendo “io non sono razzista però…”. Adesso la frase si è modificata. Adesso dicono “sappiamo che ci sono problemi, cosa possiamo fare per fare che la diversità non sia un problema ma una ricchezza?”. Dico sul serio, ho genitori che sono venuti a dirmi che desideravano mettersi a disposizione per aiutare i ragazzini a sentirsi accolti. Un gruppo di genitori aveva competenze culinarie, mi ha proposto di fare un laboratorio di cucina… c’è un clima propositivo, è cambiato davvero. L’inclusione passa per la quotidianità, per cose piccole, anche dagli sguardi». Concretamente però la preside Lauricella poi racconta che nella sua scuola non c’è una programmazione di classe, perché ogni classe ha almeno 3 o 4 percorsi differenti, più ovviamente i progetti specifici dedicati. «La lezione non può essere collettiva, fare fare a tutti e 20 lo stesso dettato, quando hai almeno due alunni che non sanno cosa sia un dettato… La didattica è personalizzata, ormai si deve lavorare così, non si può scegliere, riuscirci o non riuscirci, è un dovere preciso della scuola. Le indicazioni nazionali del 2012 parlano di percorsi cuciti sull’alunno, che è una persona, non più un numero, e quindi è da seguire personalmente».

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