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martedì 13 marzo 2018

QUINTO ANNO DI PONTIFICATO - Cinque parole per Francesco

QUINTO ANNO DI PONTIFICATO 

Cinque parole per Francesco

Misericordia - Periferie - Poveri -  Uscita - Diavolo


LA FORZA DI UN NOME

"... Nessun pontefice aveva però scelto di chiamarsi Francesco, nome di origine profana che nel latino medievale indicava proveniente dalla Francia, ma divenuto cristiano per eccellenza perché richiama il santo di Assisi (battezzato con quello di Giovanni) e la sua radicalità nell’imitazione di Cristo.

All’inizio del sesto anno di pontificato appare chiara la forza di quel nome, che Bergoglio volle spiegare ai giornalisti incontrati tre giorni dopo l’elezione. Nome che evoca la figura di san Francesco per tre motivi: l’attenzione e la vicinanza ai poveri, raccomandate al nuovo pontefice da «un grande amico» (il cardinale brasiliano Cláudio Hummes che gli stava accanto in Sistina) quando ormai i voti avevano superato i due terzi necessari, la predicazione di pace, la custodia del creato. ..."

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La forza di un nome

MISERICORDIA 
di Jean-Marie Guénois

Chi si ricorda della Misericordina? Quelle piccole scatole che sembravano una medicina ma che contenevano un rosario e un’immaginetta, rimedio spirituale per curare e guarire nel profondo il cuore e lo spirito? Hanno fatto furore all’inizio del pontificato perché quella farmacia del cuore era un simbolo perfetto del trattamento prescritto alla Chiesa cattolica dal nuovo Papa. Sul foglietto illustrativo si leggevano due parole tante volte ripetute da Francesco: «rivoluzione della tenerezza».

Indicavano una terapia ma anche e soprattutto una diagnosi. Quella di una Chiesa cattolica che non riusciva a far passare il suo messaggio più essenziale, la compassione e la misericordia di Cristo per tutte le miserie della vita. Il Salvatore non ne rifiuta nessuna, soprattutto le più nascoste, le più inconfessabili, quel tessuto cellulare invisibile dove prospera il vero acido della coscienza umana, quel virus letale che persuade l’uomo di due cose: che non potrà mai uscire dai suoi bassifondi e che Dio non lo perdonerà mai. Un ingrediente perfetto, perché silenzioso e segreto, della disperazione profonda.

Eppure il messaggio della misericordia veniva da lontano e da molto tempo. Per restare al Novecento, suor Faustina Kowalska, la santa polacca della divina misericordia, ebbe un’influenza decisiva su Karol Wojtyła che alla misericordia dedicò la sua seconda enciclica. E proprio nel segno della misericordia, cuore del Vangelo, il concilio era stato aperto e fu concluso.

Con uno sguardo retrospettivo si può dire che quel prezioso messaggio della misericordia divina fu molto notato ma non riuscì a conquistare il favore dell’opinione pubblica, credente o non credente, cristiana e persino cattolica. Opinione pubblica che continuava ad avere della Chiesa cattolica l’immagine di un intransigente gendarme morale. Di fatto era difficile, dopo secoli di scrupoloso moralismo, cancellare quella immagine negativa spiegando che ormai regnava «l’inconcepibile misericordia», come diceva suor Faustina, e non più la triste contabilità dei peccati.

Ecco forse uno dei grandi capovolgimenti di questi primi cinque anni di pontificato di Francesco. Questo Papa, insistendo sulla confessione, celebrando un anno santo straordinario dedicato alla misericordia, è riuscito a conquistare il grande pubblico e a comunicare quel messaggio spirituale dell’amore divino incondizionato, la misericordia. Quello che i suoi predecessori hanno seminato appare ora coltivato su vasta scala da Francesco. E sotto forma di nutrimento spirituale per tutti.

PERIFERIE
di Lucetta Scaraffia

Il Papa venuto dalla fine del mondo ha portato subito a Roma, in Vaticano, la periferia attraverso i suoi occhi. Il punto di vista dal quale ha guardato al ruolo che doveva assumere, al modo di vivere previsto per un Papa, era così nuovo che ne ha subito colto il rischio di distacco dalla vita vera, dai rapporti con gli altri esseri umani, soprattutto da quei rapporti imprevisti dai quali — lui lo sapeva bene — potevano venire ispirazione e forza.

Guardare il mondo dal punto di vista delle periferie ha ispirato ogni gesto e ogni decisione del suo pontificato: sin dal primo viaggio a Lampedusa, isola sperduta nel Mediterraneo, il cui interesse ai suoi occhi era quello di essere punto di arrivo di migliaia di migranti, periferia che accoglieva coloro che fuggivano dalle periferie disastrate del mondo. Poi sono venuti i viaggi al confine fra Messico e Stati Uniti, altro luogo dove si consuma la tragedia delle migrazioni, e nelle zone più devastate del pianeta — come le bidonville delle città latinoamericane dove si prepara e distribuisce la droga poi venduta nei paesi ricchi — sempre alla ricerca delle parole giuste per scuotere un mondo ricco che non vuole sentire parlare dei poveri.

Papa Francesco sa bene che dalle periferie viene il male, e quindi può venire il bene, per il mondo. In questa ottica, rivoluzionando le tradizioni curiali, ha creato molti cardinali che operano in luoghi periferici e considerati di poco conto, per far capire ancora una volta che guardare alle periferie significava rovesciare il tavolo e rinnovare sul serio.

Due sono gli atti più forti che ha compiuto: l’enciclica Laudato si’, che ha ribaltato completamente il punto di vista dal quale si guarda l’inquinamento, buttando davanti agli occhi del mondo — abituato alle lamentele per lo smog delle grandi città — il prezzo enorme e ingiusto che pagano coloro che vivono nei paesi poveri a uno sviluppo che non tiene conto delle esigenze degli esseri umani e della natura, ma solo del guadagno.

E poi l’apertura del giubileo della misericordia a Bangui: quando Francesco ha aperto la porta di quella povera cattedrale, in mezzo a una popolazione dilaniata dalla guerra, tutto il mondo ha capito che l’era della Chiesa trionfale che mostra la sua bellezza e la sua opulenza da San Pietro veniva superata. Era la Chiesa stessa che chiedeva misericordia per le periferie spesso dimenticate.

Ma c’è un’altra periferia ancora da salvare, proprio nel cuore della Chiesa: le donne, religiose e laiche, che hanno tanto da dire, tanto da dare, e non sono ascoltate

POVERI
di José Beltrán
Interno della Sistina. Ovazione. Lo spoglio dei voti è finito. Non si può tornare indietro. Primo piano. Il volto sereno di Bergoglio, meditativo. Accanto a lui Hummes. Un abbraccio. Gli dice qualcosa all’orecchio. Primissimo piano. «Non ti dimenticare dei poveri». Un sussurro del brasiliano. Dio, a voce bassa. Brezza dello Spirito che si fa eco nella testa dell’argentino, «i poveri, i poveri». Subito un’altra parola nasce dal cuore. Nasce Francesco. Un altro “poverello”. Quelli che non contano per la società, i condannati a vivere senza nome, danno nome al nuovo pontificato. E senso. Minuto zero. «Sogno una Chiesa povera e per i poveri». Il programma del vescovo di Roma per tutti i cattolici. Sogno, non fantasticheria.

Tabella di marcia che lui stesso stabilisce con il suo passo, con sandali consumati da pescatore che lo portano a Lampedusa come prima destinazione. I rifugiati che il mare inghiotte, spinti nell’abisso dai potenti. Poveri tra i poveri. La valigia papale da allora viaggia tra i sobborghi del mondo. Da una bambina vittima della tratta nelle Filippine alle madri detenute in Colombia. Per lavare i piedi a un migrante musulmano e per tendere la mano agli oltraggiati rohingya. «Prendendo un bambino, lo mise in mezzo a loro e lo abbracciò». Dalla periferia al centro. Francesco abbraccia la povertà come stile di vita. Una provocazione. Perché la povertà ha un cattivo odore, non è fotogenica e comporta solo problemi. Lo sa bene il pastore che ha percorso in lungo e in largo le villas di Buenos Aires, che ha voluto complicarsi la vita con i cartoneros, con i bambini dipendenti dal paco e con le madri sole. E come Papa ha complicato la vita a più di una persona che preferiva guardare da lontano quella realtà. O al massimo toccarla con guanti sterilizzati.

Francesco ha fatto scendere la Chiesa dall’automobile ufficiale della falsa compassione per sporcarsi di fango. Non si è perso in discorsi da salotto, ogni giorno pronuncia a Santa Marta l’omelia dell’austerità, dell’umiltà e della semplicità che nasce dalla stalla di Betlemme.

Perché abbracciare la povertà per lui non è un postulato etico né mero assistenzialismo. È il Vangelo, scoprire il volto di Gesù nello sguardo dell’indigente che penetra dentro. È commuoversi fino alle viscere come il padre del figliol prodigo, per ribellarsi contro le situazioni d’ingiustizia che hanno portato a creare ghetti in tutti i popoli. La premessa bergogliana: sono io privilegiato a essere in debito con il povero e non il contrario. Perciò questo è un papato scomodo. Per il primo Papa latinoamericano abbracciare la povertà è denunciarne le cause e combatterle. Indignazione di fronte alla disuguaglianza. Gridare per porre fine a un’economia che scarta e uccide di fame, contro una guerra a puntate che crea nuove sacche di miseria, contro un’opinione pubblica che rende invisibile chi dorme davanti a una banca o chiede l’elemosina all’ingresso di un supermercato. I poveri, in primo piano per Francesco. Dal minuto zero. A oggi

USCITA
di Silvina Pérez

Uscita. Una parola che racchiude una delle novità del pontificato di Francesco, parola attorno alla quale si è concentrato il programma pastorale consegnato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Senza dubbio è un’espressione con la quale il Pontefice vuole spiegare come, di fronte a un’umanità sofferente per ferite di ogni genere, debba avvenire l’evangelizzazione, cioè portando il Vangelo fino alle periferie esistenziali.

«Voi uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr. Matteo22, 9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Matteo 15, 30). «Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo». Con queste parole, indirizzate ai vescovi italiani il 10 novembre 2015 nella cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, il Papa indica quale deve essere lo stile della Chiesa “in uscita”, capace di consolare, soccorrere, curare e soprattutto rendere visibile la misericordia di Dio.

Essere una Chiesa in uscita presuppone il cercare chi si è perso e l’accogliere chi chiede aiuto. La Chiesa dunque è in «dinamismo di “uscita”», perché animata dalla «potenza liberatrice e rinnovatrice» della parola di Dio. Ma per Francesco l’uscita prevede un passo antecedente: quello della conversione, perché non si è pronti se prima non si esce da se stessi, verso Dio e verso gli altri.

La disponibilità all’ascolto in uscita è una delle chiavi interpretative per capire tutta l’azione di Francesco, è il modo in cui il Papa vede nel suo magistero i segni della natura missionaria della Chiesa. Bergoglio ha avuto l’intuizione ecclesiale e pastorale di uscire, di andare nelle periferie e di capovolgere lo sguardo ripartendo proprio da queste, là dove con la celebrazione dell’eucaristia in comunione trova l’immagine di Chiesa che preferisce: quella espressa dal Vaticano II nella Lumen gentium, del «santo popolo fedele di Dio».

Dunque, sentire cum ecclesia significa per Papa Francesco essere Chiesa «in stato permanente di missione». Una Chiesa “in uscita” anche dall’autoreferenzialità rinchiusa in «una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate». Una Chiesa missionaria proiettata verso un mondo dove prevale la «globalizzazione dell’indifferenza». Indifferenza che provoca quella «cultura dello scarto» basata sulla preminenza dell’interesse individuale a cui secondo Francesco si deve contrapporre il Vangelo della misericordia.

IL DIAVOLO
di Enzo Bianchi
«Il diavolo c’è anche nel XXI secolo e noi dobbiamo imparare dal Vangelo come lottare contro di lui». In questa frase dell’omelia a Santa Marta dell’11 aprile 2014 è condensato il pensiero di Papa Francesco non tanto sull’esistenza del diavolo, quanto — ben più in profondità — su come il cristiano deve affrontare questa presenza che, pur privata di immagini e personificazioni stereotipate, non cessa di incidere sul vissuto quotidiano di ciascuno.

A Francesco non interessa tanto descrivere il demonio, il “divisore” che tenta incessantemente di separarci da Dio e di contrapporci gli uni gli altri. Al Papa sta soprattutto a cuore che il cristiano sappia lottare giorno dopo giorno contro i demoni, usando come arma il Vangelo, la buona notizia del Dio che si è fatto uomo per curare i malati, salvare chi era perduto, riconciliare a sé ogni creatura.

E le armi del Vangelo che è Gesù Cristo si affinano con il discernimento — dei pensieri, delle parole, delle azioni e delle omissioni — che porta a riconoscere ciò che viene da Dio e ciò che viene dal maligno. Un discernimento che sa cogliere come prende corpo in noi (come singoli e come comunità ecclesiale) la tentazione da parte del demonio, che «ha tre caratteristiche, cresce, contagia e si giustifica» precisa il Papa. Sì, il tentatore come virus si insinua astutamente, mostrandosi dapprima di lieve entità, poi trasmettendo attorno a sé il proprio contagio, fino ad apparire una condizione tutto sommato giustificabile.

La lotta allora deve avvenire con la spada della parola di Dio (cfr. Ebrei 4, 12) che penetra e opera una “divisione” contrapposta a quella del demonio, ispirando una presa di posizione che ricolloca il cristiano alla sequela del Signore, ne raddrizza il cammino, lo guida a conversione. È l’assiduità con la parola di Dio che impedisce alla tentazione di crescere e mettere radici, che ne ferma il contagio e ne annienta le giustificazioni. Nel contempo lo Spirito lotta in noi e accanto a noi, confortandoci, risollevandoci dalla disperazione, annunciandoci la buona notizia del Signore che perdona i nostri peccati.

Questo volto misericordioso del Signore è l’antidoto che Francesco ricorda costantemente per rinsaldare i cristiani nella loro lotta anti-idolatrica e per consolare chi è tentato di cedere alle lusinghe del diavolo. È il Signore Gesù — narrato e predicato nel Vangelo, colui che ha abbattuto il muro di separazione, che ha creato l’unità dei due popoli (cfr. Efesini 2, 14) e che ogni giorno ricrea la comunione tra i suoi discepoli — il solo che può sconfiggere il divisore e unificare il nostro cuore. Del resto, il Papa lo ha affermato fin dal giorno dopo la sua elezione, citando Léon Bloy: 
«Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo».

(fonte: testi L'Osservatore Romano 12-13/03/2018  - Immagini web a cura dello staff di Quelli della via)