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martedì 10 aprile 2018

Come andare oltre i drammi delle «Case di lavoro» di mons. Bruno Forte

Come andare oltre i drammi delle «Case di lavoro»

di mons. Bruno Forte 
Arcivescovo di Chieti-Vasto


La Pasqua è nella coscienza della fede un evento di liberazione e di rinascita: a questo originariamente si riferivano gli auguri che tutti ci siamo scambiati, per lo più senza minimamente riflettere al significato accennato. 
Vorrei perciò con questa riflessione puntare il faro dell’attenzione su un caso concreto, che richiede con urgenza un cammino di rinnovamento e di liberazione, la cui attuazione dipende solo da una iniziativa legislativa da chiedere a quanti con le recenti elezioni sono stati chiamati a rappresentarci in Parlamento. Si tratta di una situazione circoscritta, che però dovrebbe far vergognare una democrazia come la nostra, fondata sui principi del rispetto della dignità di ogni persona e della solidarietà verso i più deboli, sanciti nella nostra Costituzione repubblicana. 
Mi riferisco alla realtà carceraria, istituita in Italia negli anni del fascismo con l’intento di favorire il reinserimento sociale di persone che hanno commesso reati ed espiato una pena, ma sono ritenute ancora pericolose per la società in quanto delinquenti abituali, professionali o per tendenza: la “casa di lavoro”. L’assegnazione a questo tipo di struttura è decisa dal giudice o dal magistrato di sorveglianza, tenendo conto delle condizioni e delle attitudini della persona. La durata minima della permanenza è di un anno, di due per i delinquenti abituali e professionali, di quattro per quelli di tendenza. Tuttavia il periodo si può rinnovare nel caso di qualsiasi minima infrazione disciplinare. 
Di fatto, a considerare la situazione nelle quattro Case lavoro presenti in Italia (di cui una, la più grande per numero di internati, a Vasto, nell'arcidiocesi a me affidata) sembra che nel nostro Paese si possa finire di scontare una pena e diventare ergastolani. 
La pericolosità di chi viene internato in una Casa di lavoro si evince da quanto ha fatto nel passato e non da quello che ha ricominciato a vivere dopo il carcere. 
Vi si può arrivare direttamente dal carcere oppure quando si è già liberi in regime di libertà vigilata, senza tener conto se nel frattempo ci sono stati aiuti familiari o opportunità di lavoro. 
La Casa di lavoro dovrebbe offrire possibilità di rieducazione al contatto con la realtà esterna, ma di fatto diventa un ulteriore tempo di carcerazione per chi alle spalle ne ha già vissuto tanto. Vi si trovano persone che hanno scontato trenta e anche quarant’anni di detenzione, e in generale una folla di disperati in condizioni che non permettono nemmeno a chi è sano di mente di rimanere tale molto a lungo. 
Ci sono persone provenienti da Ospedali Psichiatrici Giudiziari, malati di mente, tossicodipendenti, infermi con patologie praticamente incurabili in carcere, malati di Aids, gente di strada, stranieri senza documenti, persone senza fissa dimora. 
Durante il tempo di permanenza nella Casa di lavoro gli internati vengono osservati e valutati dagli educatori e da altri preposti e al termine della pena di uno o due anni possono avere una proroga, la cui durata a discrezione del magistrato può essere di sei mesi - un anno. Durante questo tempo gli internati fruiscono di licenze orarie a partire da un minimo di quattro ore ad un massimo di più giorni, da vivere sul territorio accompagnati da un volontario o da un familiare. 
Chi esce spesso vive il dramma di non avere un soldo in tasca per cui deve vagare nella umiliazione di non poter fare nulla. Il dramma si presenta anche al termine della misura cautelare, perché per uscire da una casa di lavoro bisogna avere una residenza, un domicilio, la disponibilità di un familiare o un contratto di lavoro, ma dopo che si è usciti - sempre in libertà vigilata - se si cade in una infrazione tra quelle prescritte (per esempio: dimenticare la firma in caserma, o parlare con un pregiudicato, o intrattenersi in un luogo pubblico troppo a lungo...) le forze dell’ordine possono fare segnalazione e il magistrato decretare il rientro presso la casa di lavoro (tanti rientrano e qualcuno da anni va avanti e indietro). 
Il dramma continua specialmente nella vita degli stranieri, che spesso non riescono nemmeno a farsi espellere per tornare al loro paese, e nella vita di chi non ha famiglia, non ha casa o è stato disconosciuto dai familiari. Per tutti costoro la sola speranza è l’accoglienza in qualche comunità che li accetti gratuitamente: tra queste le uniche sono quelle offerte dalla Chiesa cattolica. Altre strutture private o statali non accolgono se non dietro pagamento della retta che spesso non si riesce a reperire, anche perché si tratta di persone che mancano da tanto tempo dalle loro residenze e sono state depennate dall’elenco dei residenti del loro comune. 
La Casa di lavoro crea così una condizione disumana, dove la speranza di riprendere una vita normale è quasi nulla. 
Essa andrebbe abolita indirizzando chi debba scontarla ad esperienze significative e dignitose, come per esempio lavori utili alla società, corsi di formazione per imparare un lavoro, servizio di volontariato presso luoghi dove c'è sofferenza o disabilità, lavori utili a valorizzare l’ambiente e il rispetto del creato. 
C’è chi - fra persone che ben conoscono il mondo carcerario o hanno responsabilità in esso - ha parlato in proposito di “ergastolo bianco”, inflitto a persone le cui esistenze sono state logorate dalla droga, da malattie e dalla durezza della vita in carcere, che hanno commesso ripetutamente reati non necessariamente gravi: umanità derelitte e problematiche che sono considerate “scarto” anche dal sistema carcerario e che possono arrivare al reinserimento sociale solo attraverso il lavoro, in una realtà dove troppo spesso di lavoro non ce n’è. Così i periodi di internamento successivi al carcere diventano mesi e anni di parcheggio e di ozio, senza occupazione lavorativa e attività trattamentali, con una grande incertezza sul futuro. 
Eppure in tutta Italia gli internati presenti in queste strutture sono un numero abbastanza esiguo: con interventi di lieve entità, potrebbero essere avviati a percorsi di reinserimento facendo così cessare questa sorta di segregazione. 
Perché non approvare nel nuovo Parlamento una riforma di questo istituto del tutto inadeguato, per sostituirlo con altre forme di reinserimento, come comunità di accoglienza dedicate, misure di sicurezza applicate nella libertà vigilata, eseguite nei territori di residenza e non in Istituti di pena, tanto spesso lontani dal luogo dove queste persone hanno affetti o radici? 
Dai nuovi membri delle Camere mi sembra sia giusto attendersi una risposta sollecita ed efficace a questa sfida di civiltà, realizzando un auspicio che è anzitutto degli stessi responsabili dell’amministrazione penitenziaria: sarà data la risposta necessaria o gli “scarti” umani non saranno ritenuti degni dell’attenzione sollecita di chi deve fare le leggi? 
(fonte:“Il Sole 24 Ore” del 8 aprile 2018)