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mercoledì 23 maggio 2018

Le nuove schiavitù dell’Italia moderna

L'Italia dei braccianti schiavi: 3 euro l'ora
di Daniela Fassini 
La mappa dal Piemonte alla Puglia. «Stanno zitti perché hanno paura»


Non solo al Sud. La piaga del caporalato e dei lavoratori ridotti in schiavitù colpisce anche il Nord, anche le province più industrializzate. Dalla Lombardia al Piemonte, dalla Toscana all’Emilia Romagna. Contadini braccianti, stranieri ma anche italiani, sfruttati nella raccolta di mele, pesche, albicocche e olive. Sottopagati, con la schiena ricurva per ore, al caldo e sotto il sole. Senza dignità e nessun tipo di tutela. Succede nel Cuneese, nel Bresciano, nel Chianti e nel Mantovano.

A Saluzzo, nel Cuneese, è attivo il progetto 'Presidio' di Caritas italiana, uno sportello – fra i dieci disseminati in tutta Italia, da Nord a Sud – che offre supporto, accoglienza e integrazione per i lavoratori stagionali, in particolare i migranti, che ogni estate raggiungono il territorio per la raccolta di mele, pesche ed albicocche. Centinaia di uomini, provenienti per oltre la metà da Mali, Costa D’Avorio e Senegal, che vengono a vivere da maggio a novembre nella zona di Saluzzo in cerca di lavoro. Arrivano dalle grandi città. D’inverno vivono a Torino, se la cavano con pochi e saltuari lavoretti, in attesa della stagione più calda. La maggior parte di loro trova lavoro nella raccolta della frutta in un raggio di venti chilometri da Saluzzo, spostandosi quotidianamente con la bicicletta. Con l’apertura della stagione di raccolta, in collaborazione con l’amministrazione comunale si sta allestendo un dormitorio, presso l’ex caserma Filippi che potrà accogliere fino a 500 migranti raccoglitori.

A Guidizzolo, nel Mantovano, pochi giorni fa è stato arrestato un imprenditore agricolo, un 37enne di nazionalità del Bangladesh che pagava i suoi braccianti 3 euro all’ora. Le forze dell’ordine sono riuscite, con un blitz, a fermare l’uomo che stava impiegando nei suoi campi otto braccianti, tutti con regolare permesso di soggiorno. Interrogati, hanno rivelato di essere costretti a turni massacranti. Costretti a lavorare da mattina a sera, col caldo, la pioggia e il freddo, a una paga di appena tre euro all’ora. Fra i 'moderni schiavi' ci sono anche gli italiani. Ma le vulnerabilità maggiori riguardano gli stranieri. Rispetto ai primi, infatti, sono pagati meno e spesso e volentieri vivono in condizioni degradate, in baracche e luoghi di fortuna, senza servizi e acqua corrente.

«Fra gli stranieri il problema è più acuto – spiega Manuela De Marco, di Caritas italiana – perché vivono in condizioni abitative al limite della dignità». Al Sud, in Puglia, i volontari del progetto 'Presidio' dell’ente caritatevole, che gira intercettando i lavoratori sfruttati nei campi e nelle serre, ha trovato braccianti stranieri che vivevano nei piloni dell’elettricità. Purtroppo, però, il problema è che spesso queste persone preferiscono non denunciare. Hanno paura delle ritorsioni. Hanno paura di perdere quei pochi soldi che danno loro l’unico modo per guadagnarsi da vivere.

Le nuove schiavitù, ovviamente, non riguardano solo l’agricoltura. In Campania, ad esempio, il fenomeno colpisce l’edilizia piccola e privata. Nei lavori di ristrutturazione di piccole imprese, soprattutto a carattere familiare, che cercano profughi a basso costo per reperire manodopera. E alla vigilia dell’estate si guarda anche all’ambulantato stagionale sulle spiagge. «Dallo sportello di Nardò e Gallipoli ci segnalano di venditori ambulanti costretti a fare chilometri sotto il sole, sulle spiagge dei turisti». Sono i cosiddetti vu cumprà, da decenni ormai presenti nel nostro Paese. Anche loro 'schiavi' di un’Italia moderna.
(fonte: Avvenire)

Il magistrato Bruno Giordano
«Caporalato, poche denunce ma processi in aumento»
di Antonio Maria Mira

«Centinaia di procedimenti, prima erano solo una trentina. È in corso un vero accerchiamento, anche in altri settori»


«La legge sul caporalato approvata nell’ottobre 2016 sta funzionando. Prima i processi per questo reato erano stati solo una trentina in tutta Italia. Oggi invece sono centinaia in varie procure dal Nord al Sud. Inoltre questa legge sta permettendo di attaccare tutte quelle condizioni che ledono la dignità del lavoratore, i diritti sociali, sindacali e della sicurezza». Ne è convinto Bruno Giordano, magistrato di Cassazione, professore alla Statale di Milano ed ex consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sicurezza del lavoro. E tra gli esperti ascoltati nella stesura della legge.

«L’applicazione in questo anno e mezzo – ci spiega – ha dimostrato che lo sfruttamento del lavoro va da Nord al Sud e non solo in agricoltura. È un reato presente in edilizia, nel settore metalmeccanico, nei cantieri navali, nei servizi, come gli appalti di pulizia, di trasporto, spesso attraverso cooperative. Si scarica verso il basso il risparmio dei costi facendolo pagare a chi deve lavorare per pochi euro e con pochi diritti». La sua è un’analisi molto dura. «Il caporalato è un profilo criminale. Non possiamo parlare di un fenomeno perché fenomeno è ciò che non si può spiegare mentre qui si può spiegare tutto benissimo». Ora, insiste il magistrato, «la legge permette di punire non solo il caporale ma anche il datore di lavoro. E non incrimina soltanto le persone fisiche, ma anche le imprese perché stabilisce la loro responsabilità penale diretta».

È «un vero e proprio accerchiamento», lo definisce Giordano, «non solo con l’incriminazione penale, ma anche col sequestro e la confisca delle aziende e di tutto il patrimonio dell’imprenditore». Per evitare poi «il ricatto occupazionale», è prevista «la nomina da parte del giudice di un controllore giudiziario per consentire il mantenimento del patrimonio dell’azienda e il livello occupazionale». E questo è molto importante perché «il lavoratore è il primo 'complice' del suo sfruttamento per non perdere il lavoro. Sono rarissimi i casi in cui ci si ribella. Così le denunce sono molto rare».

Anche perché gli imprenditori disonesti in questi mesi hanno preso le contromisure, trucchi per aggirare la norma. «Oggi è diffusissimo, anzi ormai è la regola, non avere dei lavoratori in nero ma in grigio, cioè formalmente assunti, che hanno una busta paga regolare ma per un numero di ore di gran lunga inferiore a quelle effettive. Il resto viene pagato a nero oppure regolarmente ma il lavoratore deve restituirne una parte. E così si creano dei fondi neri. In caso di controllo il lavoratore, purtroppo, non ha nessun interesse a dichiarare agli ispettori che risulta lavorare due ore al giorno mentre in realtà ne fa dieci. E l’ispettore guarda caso l’ha trovato proprio nelle due ore in cui lavora...».

Non basta, dunque, la pur ottima legge. «Non servono più controlli, quanto più coordinamento. Sono stati affidati all’Ispettorato nazionale del lavoro che avrebbe dovuto riunire gli ispettori dell’Inps, dell’Inail e del Ministero del Lavoro, facendo controlli incrociati, ma non sta decollando». Piuttosto, sottolinea il magistrato, «è dimostrato che solo un’attività massiccia di polizia può scoprire questi reati. Quando devi entrare in un cantiere edile non bastano due ispettori e così in un’azienda agricola di decine di ettari. I lavoratori scappano dall’altra parte. Ho coordinato un blitz per conto della Commissione in un’azienda agricola pontina, ma siamo andati con 40 carabinieri».

Giordano è originario di Vittoria, proprio la zona che Avvenire ha raccontato nei giorni scorsi. «Lo sfruttamento dei lavoratori extracomunitari e comunitari, come i romeni, ha favorito anche quello degli italiani. Il bracciante siciliano si deve adeguare a quel tipo di paga, totalmente illecita, frutto anche di un mercato agricolo che subisce la forte concorrenza dal nord Africa e dalla Cina, con un crollo del prezzo che spinge il datore di lavoro ad abbattere in primo luogo i costi dei salari ». La mafia «ha altri interessi economici, non si basa sullo sfruttamento del migrante. Sono invece interessati al mercato ortofrutticolo, soprattutto all’indotto, trasporti e imballaggi. Non è un caso che gli attentati incendiari degli ultimi mesi hanno colpito queste aziende». Ma il caporalato è utile per altri fini, perché «lo sfruttamento del lavoro comporta non solo la conoscenza e il controllo delle persone, ma anche del territorio. E controllare le persone e il territorio è il Dna della mafia».

(fonte: Avvenire)

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