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lunedì 26 settembre 2016

Abuso di illusione immunitaria (Senza compassione) di Luigino Bruni

Rigenerazioni/5 -
Imprese, società, famiglia

sempre meno tempo della compassione



Abuso di illusione immunitaria
(Senza compassione)

di Luigino Bruni




“Per quanto egoista possa essere considerato l’uomo, nella sua natura ci sono chiaramente alcuni principi che lo spingono a interessarsi alle sorti degli altri, e che gli rendono la loro felicità necessaria, sebbene egli non tragga da essa nulla più del piacere di vederla. È la pietà o la compassione, quell’emozione che sentiamo per la miseria degli altri, quando la vediamo o quando riusciamo a sentirla forte e viva con la nostra immaginazione.” 
(Adam Smith, La teoria dei sentimenti morali, 1759)


La gestione delle emozioni nostre e di quelle degli altri sta diventando sempre più faticosa. Abbiamo ridotto drasticamente gli spazi, i luoghi e gli strumenti comunitari e personali per accompagnare, accudire, sublimare le nostre emozioni. La cultura delle grandi imprese, e che da queste sta emigrando nel mondo intero, produce una crescente quantità di emozioni negative (delusione, paura, rabbia, ansia, tristezza, …), che vengono trattate come vere e proprie “scorie”, e quindi rigettate, espulse o prese come marcatori dei lavoratori "perdenti". Guai a mostrarle e renderle visibili negli stessi luoghi che le hanno generate, pena non avanzare nella carriera o, non di rado, perdere il lavoro. Negli ultimi anni questi effetti collaterali emotivi sono cresciuti al punto da spingere le grandi imprese a ricorrere a nuove figure professionali, alle quali viene delegata e appaltata la gestione dei malesseri emotivi prodotti da stili relazionali insostenibili nei luoghi di lavoro. Si innesta così una spirale perversa simile a quella che troveremmo in (più o meno) ipotetiche fabbriche che inquinano l’ambiente di lavoro e poi, invece di eliminare il veleno, donano ai lavoratori cure disintossicanti gratuite in cliniche specializzate, o creano nuovi reparti interni per la disintossicazione dei dipendenti dai fumi tossici. Ma mentre la nostra sensibilità etica non accetta più simili soluzioni in materia di salute e di ambiente, le approviamo serenamente nella gestione delle nostre emozioni, e così non ci ribelliamo di fronte alle nostre aziende che prima ci intristiscono e deprimono dentro relazioni di lavoro insostenibili, e poi ci offrono tecniche ed esperti per curarle; e magari le ringraziamo perché ci offrono queste cure gratis. Come se procurare una malattia e poi (cercare di) curarla fosse uguale a non essersi ammalati. E così continuiamo a moltiplicare le emozioni negative e le loro cure, che non possono far altro che crescere assieme. In realtà, queste nuove autentiche trappole di povertà emotiva dipendono dalla forte diminuzione della compassione, una delle virtù umane più preziose e grandi, e dalla sua sostituzione con tecniche e strumenti. Compassione letteralmente significa “soffrire” (pati) “insieme” (cum), cioè la capacità di saper e voler condividere il dolore altrui. La compassione è l’atteggiamento opposto dell’invidia, perché mentre l’invidioso gioisce per le sofferenze degli altri e soffre per le loro gioie, il compassionevole soffre per il dolore e gioisce per le gioie dei suoi prossimi. L’invidia, sentimento prodotto, incoraggiato e coltivato dalla nostra cultura rivale e competitiva, si può curare limitando i suoi gravi danni, immettendo nell’organismo sociale persone capaci di compassione, che sono gli antibiotici naturali del virus dell’invidia. Nella tradizione occidentale (ma non solo in questa: si pensi al buddismo) la compassione è qualcosa di diverso da quella che oggi chiamiamo empatia, perché nella compassione c’è una partecipazione intenzionale al dolore dell’altro al fine di alleviarlo, che non è richiesta all’empatia. Nella compassione c’è la volontà di fare del bene a chi si trova in uno stato di sofferenza, che nasce dalla consapevolezza o speranza che la condivisione di quella sofferenza la possa in qualche modo alleviare
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La compassione, infine, ha le sue parole tipiche. La prima è attenzione. Non coltiviamo e pratichiamo la compassione se siamo distratti e non attenti a chi ci passa accanto, a chi lavora nella scrivania vicino alla nostra, a chi abita nell’appartamento di fronte. Ci sono troppe vittime dei briganti che restano abbandonate e ferite lungo la strada delle nostre Gerusalemme e Gerico perché mancano persone capaci di attenzione. Senza questa attenzione interiore che è vigilanza spirituale non riusciamo a esercitare il secondo verbo fondamentale della compassione: guardare. Il compassionevole passa per il mondo guardandolo. Ha sufficiente attenzione e silenzio interiore per guardare la vita che gli scorre accanto. Guarda e vede, e così sente l’infinito grido di compassione che si alza dalle città. E una volta visti e uditi i dolori degli altri, decide liberamente di esercitare la compassione, chinandosi, facendosi prossimo, prendendosi cura del dolore degli altri. La compassione è essenziale per vivere bene, perché ci rende capaci di moltiplicare anche le nostre gioie condividendole. È una sorta di muscolo morale, che se si atrofizza non ci impedisce soltanto di ridurre i dolori degli altri, ma diminuisce anche la nostra capacità di gioia e di vita. La cultura immunitaria del nostro tempo sta atrofizzando questo muscolo, e quindi facciamo sempre più fatica a provare emozioni per il dolore degli altri, e ancor più ad agire mossi da compassione. Abbiamo un bisogno immenso di persone compassionevoli, oggi più di ieri. Siamo sempre più inondati da sofferenza psicologica, morale e spirituale, ma il terreno non riesce ad assorbire quest’acqua perché troppo poche sono le persone capaci di compassione, e ancora meno quelle che la esercitano. Eppure sono queste a cambiare radicalmente la qualità morale dei luoghi del vivere. A volte basta una sola persona compassionevole per salvare un’intera comunità. La vita funziona e fiorisce quando siamo capaci di scoprire la bellezza che ci circonda, lasciandoci amare da essa. Ma non meno importante è cercare e scoprire il dolore attorno a noi, amarlo e lasciarci amare da esso. Il dono più grande che si può fare a un figlio è aiutarlo ad aumentare la sua capacità di compassione. Perché è la compassione per il dolore degli altri che ci fa vedere la bellezza più grande della terra, quella nascosta nel cuore delle persone.


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